È
davvero un personaggio singolare Julie Delpy. Figlia di due attori di
sinistra esponenti dell'avanguardia teatrale, grazie alla sua bellezza
diafana e molto francese è stata la musa di registi come
Kieslowski
e Tavernier,
per poi diventare una specie di ambasciatrice dell'incontro tra il vecchio
e il nuovo mondo, del bilinguismo e della contaminazione culturale, coi
cinque film che ha diretto e con la trilogia amorosa di Richard Linklater.
2 giorni a New York
non è così solo il sequel, cinque anni dopo, del suo 2 giorni a Parigi, ma
col suo misto di realtà e finzione e la presenza di amici fraterni e
membri della sua stessa famiglia (qua il padre, vedovo dopo la recente
morte della madre), diventa parte di un'opera più vasta in cui è difficile
districare le vicende della sua protagonista Marion, da quelle della
Céline di Linklater e della stessa Delpy.
All'inizio del film, la storia della fotografa francese e di Jack,
fortemente in crisi in
2 giorni a Parigi,
è ormai finita, ma la donna non si perde d'animo e vive col figlio avuto
da lui assieme a Mingus, un paziente e spiritoso uomo di colore che ha un
programma radiofonico di successo e amandola ne sopporta le isterie e le
idiosincrasie, sfogandosi di tanto in tanto col cartonato del suo idolo,
Barack Obama. Ma anche questa storia verrà messa a dura prova dalle
crescenti tempeste ormonali di lei, incinta senza saperlo, e dall'arrivo
dell'eccentrico padre, della sorella esibizionista e un po' ninfomane col
suo attuale e fastidioso compagno, Manu, che è anche uno dei suoi ex.
Il grande critico americano Roger Ebert, prima di morire aveva fatto in
tempo a recensire questo film che arriva con un paio di anni di ritardo
nelle nostre sale. Parlandone in modo lusinghiero, a proposito
dell'autrice aveva scritto più o meno che nonostante tutti i registi con
cui aveva lavorato, sembrava che l'unico maestro per lei fosse stato
Woody Allen.
È un complimento che ci sentiamo di sottoscrivere, perché è indubbia la
maestria con cui la Delpy maneggia la comicità fisica, di situazioni e di
battute, tipiche della commedia sentimentale newyorkese che ancora oggi
porta il marchio ingombrante del regista.
Se dal punto di vista della messinscena – curata e con qualche guizzo
creativo - è maturata, da quello del contenuto osa molto, mette un sacco
di carne al fuoco e qualche volta entra pericolosamente a gamba tesa.
Nonostante questo, riesce quasi sempre a far ridere col suo sguardo
indulgente, anche se politicamente scorretto, sulle diverse culture dei
suoi mondi di adozione e sull'essere donna, madre, compagna e artista in
un momento critico della vita come i quarant'anni. Un po' Céline, un po'
Marion e un po' Julie, la sua scatenata protagonista non pretende di
essere simpatica ma rivendica il diritto a essere quello che è, e si
concede momenti irresistibili come il surreale incontro con l'acquirente
della sua anima, il Renaissance Man Vincent Gallo nel ruolo di se stesso,
che col suo narcisistico modo di definirsi sembra in realtà descrivere la
stessa regista, un'artista che non si accontenta di ricoprire un unico
ruolo ma prova a far di tutto e per la quale, da un pezzo a questa parte,
il cinema è diventato una sorta di journal intime.
Del cast ci ha convinto soprattutto Chris Rock, sorprendente nel ruolo del
povero Mingus, capace di offrire una performance divertente e comica senza
mai uscire dalle righe. Per il resto, se Parigi val bene una messa, New
York vale bene un (altro) film sulle eterne schermaglie amorose che vanno
avanti nonostante i tempi e le stagioni, perché, come diceva il maestro
Woody Allen nell'insuperabile Io e Annie,
“abbiamo tutti bisogno di uova”.
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Che
Julie Delpy decidesse di dare un sequel al suo
2 giorni a Parigi,
commedia romantica gradevole e sui generis che segnò, nel 2007, la sua
seconda regia, era in fondo prevedibile. Al di là del buon successo
ottenuto dal prototipo, il personaggio dell'eccentrica (ma irresistibile)
Marion si prestava ad essere sviscerato ulteriormente in nuove storie. Ciò
che invece non era ipotizzabile, e rappresenta senz'altro motivo di
coraggio per l'attrice/regista, è la scelta del soggetto per questo
secondo episodio: via Adam Goldberg e il suo personaggio, storia finita
malgrado l'happy ending del film precedente, dentro un mattatore naturale
come Chris Rock (qui, comunque, decisamente più misurato del solito) a
vestire i panni di Mingus, nuovo compagno dell'apparentemente pacificata
Marion. Confermati, invece, gli strampalati familiari della protagonista,
il padre Jeannot interpretato dal vero genitore della regista, Albert
Delpy, la sorella Rose col volto di Alexia Landeau, il rozzo e vanesio
Manu, ex boyfriend (e attuale compagno di Rose) con le fattezze di
Alexandre Nahon. Ad ammiccare ai fans del film precedente, anche lo
sghembo personaggio della "Fata" col volto di Daniel Brühl,
eco-terrorista sempre pronto a fornire buoni consigli. Squadra che vince
si cambia, quindi: almeno, in uno dei due ruoli chiave. Il motivo
dichiarato: evitare l'effetto
Prima dell'alba/Prima
del tramonto (il successivo Before
Midnight, all'epoca delle riprese, era ancora di là da venire).
Trigger della vicenda, e di tutti i suoi tragicomici risvolti, è la visita
del vecchio Jeannot a casa della coppia nella Grande Mela, seguito dalla
figlia Rose e dalla presenza, non annunciata, dello sgradevole Manu. Le
frizioni tra l'anziano uomo, da poco rimasto vedovo, e il tranquillo
Mingus, speaker radiofonico e ammiratore del presidente statunitense
Barack Obama, si faranno subito sentire; ancor più, quelle tra Mingus e
Manu, nonché tra le due sorelle, a cui basteranno poche ore di vicinanza
per risvegliare vecchi attriti. Il precario equilibrio della nuova
compagnia finirà per coinvolgere anche i piccoli Lulu e Willow, figli
avuti rispettivamente da Marion e Mingus nelle precedenti relazioni;
nonché il lavoro della stessa Marion, i cui soggetti fotografici sono
stati appena esposti in una galleria locale. L'equilibrio apparentemente
raggiunto dalla donna, dopo le disastrose manifestazioni emotive del film
precedente, si farà sempre più fragile; sotto i colpi incrociati
dell'insofferenza di Mingus agli "estranei", della malcelata invidia di
Rose per la sua apparente stabilità sentimentale, della superficialità
ottusa di Manu, di una convivenza che sembra sempre più mettere a nudo i
limiti (prima nascosti) della sua relazione.
La prima caratteristica che differenzia questo
2 giorni a New York dal suo
predecessore è, in effetti, proprio il suo carattere maggiormente
"corale": laddove il film del 2007 poneva in primo piano la relazione tra
i due protagonisti, minacciata dall'invadenza di parenti ed ex di Marion,
qui è un particolare concetto di "famiglia estesa" (e multietnica) a
essere sotto la lente di ingrandimento della regista, e a farsi pericolo
per la stabilità sentimentale della coppia.
2 giorni a New York si apre e si chiude con un "c'era una volta", con due
fiabe raccontate da Marion a un personaggio bambino attraverso il teatro
delle marionette. Tuttavia, come avverte la stessa protagonista in una
significativa scena, "Nelle favole si dice che 'vissero felici e contenti',
ma non si dice il resto della storia per una buona ragione: finiti i
draghi da stendere, dopo un finale felice, inizia la vita, che è più dura
da gestire di qualsiasi drago". Le risate, sempre presenti e profuse con
generosità, coprono un sottofondo amaro, quello di un personaggio che non
ha ancora fatto i conti con le proprie insicurezze; finendo per
nasconderle sotto un'altra relazione che, come la precedente, prescinde
dalla conoscenza reale del partner. La mancanza di comunicazione verrà
messa a nudo proprio dal clima surriscaldato e destabilizzante portato dai
nuovi ospiti; Marion rischierà di perdere non solo Mingus, ma anche sé
stessa, dopo aver simbolicamente venduto la sua anima (come un Faust
contemporaneo) durante l'esibizione delle sue opere. Non è casuale il suo
disperato tentativo di rientrare in possesso di quanto ceduto ad un
carismatico Vincent Gallo che qui veste i panni di sé stesso: se è lecito
"vendere" qualcosa allo scopo di dimostrarne l'inesistenza, è altrettanto
lecito dubitare di quanto si è fatto, quando quella inesistente "merce"
sembra essere l'unico legame con un'identità perduta.
Malgrado ciò, un equilibrio (pur sempre precario) si rivelerà infine alla
portata della nuova Marion e di Mingus (reduce, quest'ultimo, da un
irresistibile dialogo-monologo con la sagoma sorridente di Obama, posta
come un totem nel suo studio). Uno sguardo più leggero sulle cose, e la
condivisione dell'effimero, sembra essere la banale ma efficace soluzione.
Chi ha voluto, presuntuosamente, acquistare l'anima di un'altra persona,
finirà per pagarne simpaticamente il contrappasso.
Non bisogna comune farsi, erroneamente, l'idea che questo
2 giorni a New
York sia un prodotto malinconico, o addirittura cupo. Si ride ancora, e
molto, nonostante il tono forse meno spensierato e lieve del predecessore;
il carattere maggiormente corale del film consente alla regista di
sfruttare le linee di tensione createsi tra i personaggi, per dar vita a
sequenze spesso irresistibili (tra queste, una furiosa lite tra le due
sorelle in un locale, dagli esiti disastrosi per il povero Mingus, e un
esilarante dialogo tra la protagonista e un presuntuoso critico d'arte).
La Delpy riesce, soprattutto, a tenere ottimamente a bada il carattere
istrionico di Chris Rock, e la tendenza dello stesso personaggio di Marion
ad andare sopra le righe; lasciando libero sfogo all'estro (sempre un po'
sboccato) di sé stessa e del compagno solo laddove lo script lo richiede.
Va inoltre sottolineata l'impostazione visiva, ancora una volta,
estremamente accattivante del tutto, con sequenze fotografiche che vanno a
volte a spezzare la continuità delle immagini: come nel divertente
flashback che mostra la vita del vecchio Jeannot, in una breve e serrata
serie di scatti, o la gita per le vie di New York, col paesaggio cittadino
ripreso e immortalato da una macchina fotografica che qui sembra, per la
regista, quasi un ulteriore "occhio" con cui rendere la sua visione della
realtà urbana.
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