12
anni schiavo
(12 Years a Slave) |
miglior FILM miglior sceneggiatura non originale (LUPITA NYONG'O) miglior attrice non protagonista (JOHN RIDLEY) |
La peggior vergogna dell'America ottocentesca è stata senza alcun dubbio lo schiavismo. Il cinema americano l'ha rivisitato o nelle cifre di Hollywood, Via col vento, o con accenti abilmente caricaturali, Django Unchained, o nell'ambito di un dibattito storico e civile, Lincoln. Adesso il regista inglese di colore Steve McQueen ce ne parla invece dall'interno rifacendosi alla storia vera scritta da un ex schiavo, Solomon Northup, che l'ha vissuta e patita di persona (...) SteveMcQueen si era già felicemente imposto nel cinema inglese con due film intensi e quasi stravolti, Hunger, su un episodio terribile della guerra contro l'IRA, e Shame, sulla discesa agli inferi di un uomo di successo a New York. Questa volta, sulle tracce delle memorie di Solomon Northup, ha scelto, anche più che in Hunger, un approccio decisamente iperrealista dando spazi ai corpi martoriati, al sudore, agli sfregi, alle percosse, superando spesso i limiti del sostenibile e ben diversamente da quelle sue più quiete opere di artista visivo premiate più volte alla Mostra d'Arte Contemporanea di Kassel e alla Biennale di Venezia: primi piani durissimi, quasi spietati, alternati con piani sequenza indirizzati a esplorare fino in fondo quelle immagini lacerate e quei luoghi grondanti orrore; costruendovi poi in mezzo delle interpretazioni pronte ad esprimere le più riposte sfumature, anche se straziate. Non solo quella del protagonista, Chiwetel Ejiofor, una maschera equamente divisa fra disperazione e terrore, ma quella di Michael Fassbender che, dopo aver già recitato nei primi due film di Steve McQueen, ha accettato qui di dar vita al personaggio più odioso di tutta la storia, il padrone sadico. Unica figura positiva, il canadese che farà arrivare i soccorsi. La interpreta però con stile molto diverso dagli altri Brad Pitt, capelli lunghi e barbetta, ma non gli si poteva dire di no. Era tra i finanziatori del film. |
Gian Luigi Rondi - Il Tempo |
Un film sulla schiavitù 12 anni schiavo, con nove candidature all'Oscar, del resto l'identità postcoloniale è elemento centrale nell'opera di Steve McQueen. Insieme al corpo, carne, nervi scoperti, sangue, su cui l'artista inglese traccia, come in una cartografia di dolore e violenza, i passaggi della Storia. Era il corpo scarnificato l'arma e il luogo simbolico di resistenza agli inglesi dell'irlandese Bobby Sands in Hunger. È ancora il corpo come macchina sessuale compulsiva - e mai desiderante - il segno di un contemporaneo malato in Shame. Ed è il corpo, la carne nera aperta dalle frustate su cui il rosso del sangue acceca con moltiplicata violenza, che ci racconta qui la sopraffazione di un uomo sull'altro. Disumana eppure replicabile. Sappiamo che la storia di Solomon Northup è «vera», i titoli di coda ci dicono che dopo la liberazione, Solomon sarà un attivista per i diritti degli african americani fino alla morte. McQueen nella sua messinscena va oltre però l'esperienza reale, e trasforma il «romanzo di formazione» di Solomon nell'esplorazione mentale della schiavitù: cosa significa essere schiavi nella testa prima che nel corpo, nella perdita del sé, nella rassegnazione alle «regole» del sadismo (Lo schiavo americano di Comolli ci aveva già detto molto). Le linee lungo le quali si muove sono quelle di un paesaggio americano visto nel «rovescio» del mito, come conquista e massacri - (Solomon a un certo punto incontra due nativi americani). Popolato di figure archetipe, da una parte come dall'altra, tra gli schiavi come tra i padroni. Il coro degli schiavi alle spalle di Solomon, la schiava che vuole essere come i bianchi ... E il padrone condiscendente (Benedict Cumberbatch) - che come dice a Solomon una giovane schiava è sempre uno schiavista difatti li tiene prigionieri. E quello sadico (l'icona del regista Michael Fassbender) che somiglia a un SS e la notte costringe i suoi schiavi ai festini. Ha una sua «favorita» ma non esita a frustarla a morte. Le paludi, i campi di cotone, le «capanne dello zio Tom» che frontalmente McQueen visualizza nel film (con la fotografia di Sean Bobbitt), disegnano con angosciosa precisione l'universo concentrazionario e le sue dinamiche di annientamento. La schiavitù viene messa a nudo nell'essenza profonda, mostrandone la trama a venire: colonialismo, società postcoloniali, la lotta delle Panthers in America, e dei neri in Gb, l'odierno razzismo quotidiano. Senza retorica né consolazione. |
Cristina Piccino - Il Manifesto |
...Di contro, vengono mostrate situazioni finora mai viste al cinema, come la vita quotidiana degli schiavi (fino ai momenti in cui si lavano insieme) o le situazioni di privilegio che alcune schiave riuscivano a ottenere dai loro padroni. Senza dimenticare la crudeltà delle punizioni corporali, a cominciare dalle frustrate che piagano la carne delle schiene. Tutto questo, da una parte sottolinea l'originalità dell'approccio di McQueen (...) ma dall'altra non mi pare sappia dare una vera anima al film, che resta distante come a volte sono le opere di certi artisti: magari intellettualmente provocatrici ma povere di autentica emozione. Il film sceglie di raccontare tutto dalla parte del protagonista, per inseguire una descrizione della schiavitù come angoscia e paura, come buio e smarrimento (sono molte le scene dove l'ombra sembra impadronirsi dello schermo) ma rischia di non andare molto oltre. Il sangue e la carne piagata che occupano lo schermo possono alimentare lo sdegno e la rabbia (come era già successo a Kechiche con il suo Venere nera) ma non aiutano molto il cinema. E il rischio già presente in Shame (il suo film precedente) qui ritorna con più invadenza: un film che scivola verso il sociologismo, verso il dimostrativo, magari anche «bello» e «vero» ma senza un'autentica vita, capace di vivere oltre quello che si vede sullo schermo. |
Paolo Mereghetti - Il Corriere della Sera |
promo |
Nel 1841, Solomon Northrup - un nero nato libero nel nord dello stato di New York - viene rapito e portato in una piantagione di cotone in Louisiana, dove è obbligato a lavorare in schiavitù per dodici anni sperimentando sulla propria pelle la feroce crudeltà del perfido mercante di schiavi Edwin Epps. Allo stesso tempo, però, gesti di inaspettata gentilezza gli permetteranno di trovare la forza di sopravvivere e di non perdere la sua dignità fino all'incontro con Bass, un abolizionista canadese, che lo aiuterà a tornare un uomo libero. Il film ha scene di violenza fisica e psicologica davvero forti, ma mai quanto fu nella realtà e la sapienza del regista è quella di darci un'opera di fattura classica così da attanagliarci alla sorte di Solomon: che non vuole solo sopravvivere, ma tornare a vivere nella libertà. Oscar per il miglior film, con altre due statuette per la sceneggiatura non originale e la miglior attrice non protagonista. |
LUX - aprile 2014 |