In
un video del 1993 intitolato
Bear
l’artista inglese Steve McQueen
raccontava un breve e insolito incontro tra due uomini nudi.
E sul corpo nudo di Michael Fassbender si apre
Shame, la seconda
incursione di McQueen nella dimensione narrativa del lungometraggio e
attorno a quel corpo ruoterà l’intera rappresentazione, così come il
corpo dello stesso attore era stato al centro del precedente
sconvolgente
Hunger
del 2008, proiettato al Festival di Torino e pluripremiato a Cannes, ma mai distribuito in
Italia.
“Hunger parla di un uomo che ha perso la libertà e usa il suo corpo
per conquistare l’unica libertà possibile,
Shame racconta la storia
opposta: quella di un uomo che ha tutte le libertà, ma usa il corpo
per farne una prigione”.
Le parole di Iain Canning, il produttore del film, colgono in pieno il
legame che unisce le due opere.
Se in
Hunger McQueen ha raccontato, attraverso la progressiva
scarnificazione e degradazione del corpo di Bobby Sands (il primo
attivista dell’IRA ad attuare fino alla morte lo sciopero della fame),
l’orrore delle condizioni dei prigionieri politici nelle carceri
irlandesi, in
Shame, in un contesto opposto, negli spazi rarefatti,
geometrici, metallici e vitrei della ipermodernità newyorkese, con
altrettanto rigore essenziale, l’autore incolla la macchina da presa
al corpo degradato e danneggiato, in questo caso dalla sua compulsione
erotica, del protagonista Brandon, trasformandolo in un’icona del
nichilismo, della frigidità morale ed emotiva che minaccia la nostra
società.
Brandon è un newyorkese di successo, erotomane e rigido tanto
nell’impostare la sua routine su movimenti e azioni regolari e
preordinati quanto nell’evitare qualsiasi coinvolgimento affettivo ed
emotivo, il suo stile di vita verrà messo in crisi dall’arrivo della
sorella Sissy (Carey Mulligan), più giovane, irrequieta e affamata di
affetto, al punto di spingerlo ad inoltrarsi nelle pieghe più oscure
dei bassifondi newyorkesi.
In conferenza stampa McQueen ha sottolineato come il sesso
compulsivo, in quest'epoca all’insegna della massima libertà sessuale,
non sia che una delle tante dipendenze, al pari di quelle dalla droga,
dall’alcol, dal gioco d’azzardo, che finiscono per ingenerare un
sentimento comune di vergogna in chi ne diventa schiavo.
Egli però affronta un tema così spinoso, non con un atteggiamento
moralistico, ma attraverso una lucida descrizione di quella che è una
delle malattie della contemporaneità.
Il personaggio di Brandon, cui Fassbender aderisce con una fisicità
impressionante, McQueen ce lo mostra con freddezza, non giudica, non
tenta nessun approccio psicologistico al suo agire, semplicemente lo
segue, lo pedina, registra i suoi movimenti, alternando meticolosi
studi sul volto e sul corpo nudo a complessi pedinamenti alle spalle,
nel labirinto della sua ordinatissima casa e in quello di una New
York, cui la magistrale fotografia di Sean Bobbit dà l'apparenza di
una selva di vetro. Ed è proprio da questo approccio fenomenico e non
valutativo che scaturisce la grande forza del film.
Quando poi l’arrivo della sorella viene ad incrinare il mondo di false
sicurezze di Brandon, il ritmo cambia, la frenesia e l’eccesso
prendono il posto della rarefazione, fino ad arrivare all'evento
drammatico che potrebbe spezzare la corazza che avvolge Brandon,
mettendolo di fronte alla sua vergogna. Forse... E allora anche la
severità della messa in scena subisce delle accelerazioni: basti
pensare al carrello veloce che accompagna la corsa notturna per le vie
di Manhattan.
In perfetta sincronia con le immagini la colonna sonora, fatta di
musica minimalista, alternata a brani di Bach, sottolinea la
ripetitività maniacale e la precisione quasi matematica delle azioni e
dei comportamenti del protagonista, mentre verrà affidato al ritmo
jazz, al ritmo dell’improvvisazione, con cui Sissy interpreta in modo
assolutamente personale e straordinario la canzone New York New York,
il ruolo di sciogliere in lacrime il gelo emotivo di Brandon, in una
delle sequenze più belle del film, in cui anche lo spettatore, fino a
quel punto raggelato dalla visione, non può non sentirsi parte di
questo sfogo di emotività.
McQueen, transitando felicemente dalla dimensione del video a quella
di un cinema narrativo, ha realizzato un grande film, in cui la morsa
del controllo formale chiude i personaggi in un orizzonte unico che
comprende messinscena e ossessione con una compattezza di stile
esemplare.
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