Un
film pluripremiato, e non solo a Venezia, questa opera prima di
Rodrigo Plà, regista uruguaiano per una produzione ispano-messicana:
presentato alle Giornate degli Autori ha vinto il Leone del
Futuro, mentre al festival di Toronto è stato premiato dalla
Federazione Internazionale della Critica Cinematografica.
In molti sono rimasti colpiti da un’opera che ha la tenuta di un
thriller e nel contempo mette a nudo senza sconti molti aspetti
cruciali della società messicana e non solo.
La vicenda è ambientata in un quartiere residenziale di Città del
Messico, la Zona appunto, in cui, grazie ad uno statuto speciale, gli
abitanti vivono tranquilli, protetti dal circostante mondo di baracche
e miseria grazie ad un proprio sistema di sicurezza basato su polizia
privata, un alto muro e una ramificatissima rete di sorveglianza
elettronica. Ma un temporale notturno incrina il sistema di sicurezza
e permette a tre ragazzi di penetrare all’interno e di tentare una
rapina: un’anziana donna e due dei ragazzi rimangono uccisi, ma il
terzo riesce a fuggire e a nascondersi all’interno della Zona. Scatta
a questo punto la caccia da parte degli abitanti del quartiere, decisi
a risolvere la questione da soli, senza rivolgersi alle forze
dell’ordine esterne. In un mondo così piccolo e chiuso la situazione
non può non coinvolgere anche gli adolescenti del quartiere, in
particolare uno, Alejandro, che, entrato in contatto col fuggitivo, si
trova a dover scegliere cosa fare. Ammesso che gli sia possibile
scegliere...
Lo schema iniziale dunque è all’insegna del thriller: un corpo
estraneo è entrato in una comunità chiusa e paranoica. Come farà ad
uscirne? Doti personali, capacità estrema di trovare soluzioni? No, il
nostro soggetto è spaurito e anche piuttosto sprovveduto. Entra in
campo l’aiutante, un adolescente come lui: nascerà via via un rapporto
di amicizia tra i due; salvifico per il più debole? Non è così
semplice, i due a stento si parlano e uno è terrorizzato, l’altro non
ha soluzioni pronte.
Non procediamo oltre: la scelta del regista è quella di costruire
schemi noti e poi disattenderli, deviando costantemente di qualche
grado, così che a metà ci troviamo un po’ spiazzati, in attesa di
capire non solo che piega prenda la vicenda, ma in che film siamo. E
uno dei pregi della costruzione è che il procedimento rimane coerente
fino alla fine, senza che la trasformazione in film di denuncia sia
compiuta. Anche nel finale il pubblico teme un colpo di coda di genere
ma ancora una volta non viene deluso: nessuno schema lo salva da una
realtà problematica.
Nel frattempo il film è riuscito non solo a dare un quadro
agghiacciante della società messicana, con i suoi estremi di ricchezza
e povertà e un sistema fondato sulla corruzione, ma anche a
visualizzare l’orrore di una civiltà che sceglie di fondarsi sulla
paura. E nel finale si insinua nello spettatore un senso di disagio
più sottile. Nessuno si può immedesimare negli adulti paranoici del
quartiere, ma è anche vero che l’assedio è ancora lontano: il viaggio
conclusivo del protagonista ci appare giusto, ma ci fa anche provare
un brivido. Quanti si possono illudere di governare le contraddizioni
della nostra civiltà mantenendole a distanza?
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