L'uomo che verrà
Giorgio Diritti
- Italia
2009
- 1h 57' |
Succede
ancora. Ogni tanto un regista allergico alle convenzioni soffia via la
polvere da pagine che credevamo di sapere a memoria. Quanti film abbiamo
visto sugli orrori nazisti? Quante stragi, quanti rastrellamenti, quanti
tedeschi urlanti in armi? L'uomo che verrà di Giorgio Diritti è il
contrario di tutto questo. Non la ricostruzione di una pagina di Storia,
con tutte le maiuscole e il kitsch del caso, ma il prodursi di un evento
che sembra accadere sotto i nostri occhi per la prima volta.
È ciò che il cinema cerca di fare quasi sempre, non riuscendoci quasi mai.
Eppure non c'è trucco. Basta spogliarsi di tutto ciò che sappiamo - oggi -
su quell'evento. Per viverlo con gli occhi di chi lo visse, allora, come
un fatto enorme e incomprensibile perché del tutto estraneo al proprio
sapere e alla propria scala di valori. Facile a dirsi, meno a farsi.
Diritt i,
già regista di
Il vento fa il suo giro,
ci riesce sposando dall'inizio alla fine lo sguardo dei contadini di Monte
Sole, secondo logiche e ritmi che non appartengono alla Storia e alle sue
guerre ma alla cultura contadina, al rapporto con la natura, a quella
concezione arcaica e sacrale della vita già cara, con accenti diversi, a
Olmi e Pasolini.
In mani meno abili poteva diventare retorico. In quelle di Diritti e dei
suoi eccellenti interpreti, scelti mescolando non professionisti ad attori
veri come Alba Rohrwacher, Maya Sansa o Claudio Casadio, interprete di
teatro per ragazzi qui al suo primo film, diventa un esercizio di
straniamento poetico che ripaga lo spettatore con un'emozione e una
comprensione delle cose straordinarie. Una madre incinta (Sansa); una zia
che torna dalla città, l'unica che sa leggere e scrivere (Rohrwacher); una
bambina che non parla più per un trauma (la commovente Greta Zuccheri
Montanari) ma vede e capisce tutto di tedeschi, ribelli e alleati, tanto
da scrivere un tema così compromettente che la maestra glielo brucia. Poi
i racconti la sera, tutti insieme, adulti e bambini, si parli di
emigrazione o del partigiano che ha ucciso un fascista. In dialetto
naturalmente, una lingua sonora e pietrosa oggi quasi estinta che dà peso
e rilievo a ogni parola (l'italiano lo parlano solo i tedeschi, il padrone
o un funzionario comunale in città).
Così fra il dicembre '43 e il settembre '44 prende vita un microcosmo
pulsante di affetti, dubbi, speranze, paure, che prima di esser spazzati
via dall'eccidio, messo in scena con aspro pudore e dettagli rivelatori
(quel prete che si unisce ai balletti nazisti per evitare che la festa
degeneri in orgia, e finisce ucciso), acquistano un'innocenza, una
densità, una verità, scomparse nel cinema d'oggi. Un capolavoro, limpido e
accessibile, di cui essere orgogliosi. Chiedendosi anche perché ci siano
voluti tanti anni per avere un film così libero e rigoroso sul tema.
|
Fabio Ferzetti - Il
Messaggero |
Inondati
da rievocazioni scolastiche o ricostruzioni troppo schematiche della
Seconda guerra mondiale e dei suoi episodi, dove il cinema viene piegato
alle ambizioni propagandistiche di questo o di quello, la visione di
L'uomo che verrà
offre lo stesso sollievo di una boccata di aria fresca a chi si sente
soffocare. Rigoroso, emozionante, onesto, appassionato, il film di Diritti
sa coniugare lucidità morale e lettura storica con uno stile insolito per
il cinema italiano, di elegante e non ostentata classicità. Da vero (e
grande) regista. A l Festival di Roma aveva vinto il Gran premio della
Giuria e quello del Pubblico (con qualche scorno per chi non l'aveva
selezionato a Venezia) e oggi inaugura - speriamo beneaugurante - la
distribuzione della rinnovata Mikado, passata di mano (da DeAgostini a
Tatò) nell'autunno scorso. Il film, ambientato nelle colline bolognesi
vicino a Marzabotto, racconta la dura vita quotidiana della famiglia
contadina Palmieri, dall'inverno 1943 all'autunno 1944: i nazisti
presidiano con determinazione la Linea gotica, i partigiani si impegnano
nell'infastidire e sabotare le azioni degli occupanti e i civili cercano
di campare alla meno peggio, subendo le intimidazioni degli uni e le
richieste degli altri, mentre la vita non può che continuare il suo
percorso: Lena (Sansa) porta in grembo l'«uomo che verrà» a cui fa
riferimento il titolo, la cognata Beniamina (Rohrwacher) spera di
migliorare la sua condizione andando a servire a Bologna, il marito
Armando (Casadio) si dibatte tra i vincoli della mezzadria e le
imposizione fasciste, tutti, insieme ai contadini che abitano nella stessa
cascina, condividendo la dura vita quotidiana e quel che resta della
voglia di trovarsi insieme a ballare o chiacchierare. A guidare lo
spettatore c'è lo sguardo curioso di Martina (Zuccheri Montanari), la
figlia di Lena e Armando, diventata muta dopo la morte di un precedente
fratellino e trepidante custode di quello in arrivo: grazie a lei
conosciamo i comportamenti delle truppe naziste, le fughe precipitose nei
nascondigli tra i boschi, le azioni dei partigiani, le morti e le
sconfitte, ma soprattutto l'inevitabile intrusione della guerra, e della
sua violenza, nella vita di tutti i giorni. Il fratellino nascerà nella
notte tra il 28 e il 29 settembre 1944 e la Storia ci ha già detto che
cosa succederà negli stessi giorni: in nome di un'agghiacciante esigenza
di «bonifica territoriale», i nazisti rastrellano più di ottocento
persone, soprattutto donne, bambini e anziani, che uccidono senza nemmeno
la giustificazione di una rappresaglia. Non anticipiamo il destino dei
personaggi che abbiamo conosciuto e che il film mostra con documentata
partecipazione ma sarebbe ingiusto ridurre
L'uomo che verrà
a una, pur corretta, ricostruzione della strage di Monte Sole (Marzabotto
è solo uno dei comuni della zona, quello più conosciuto). Diritti guarda
oltre, alla sofferenza e alla disperazione di tutti coloro che il cinismo
del linguaggio definisce come «danni collaterali», al dolore e alla
tragedia di quegli inermi che pagano sulla propria pelle la follia della
guerra. Per farlo non amplifica le occasioni di spettacolo o di suspense.
Non gli interessa - giustamente - farci palpitare per chi si salva perché
dietro a ogni vita risparmiata ce ne sono troppe distrutte. Piuttosto
vuole farci riflettere sulle assurdità delle guerre e delle violenze. E
non tanto in nome di un pacifismo razionale ma per un'umanissima empatia
con le vittime. A quegli uomini, quelle donne e quei bambini che vanno
incontro alla morte ci siamo affezionati vedendo la grama vita quotidiana,
sentendo il loro odore di terra o di stalla e soffrendo la loro stessa
povertà, ascoltando la durezza di una lingua che ha le stesse asprezze dei
volti (per questo era necessario far parlare tutti in dialetto; per questo
non disturbano i necessari sottotitoli). Diritti filma tutto con uno stile
che sarebbe piaciuto a Bazin e a chi come lui rivendicava al cinema la
capacità di restituire sullo schermo la forza della realtà: gira dal vero,
mescola volti di professionisti (Sansa, Rohrwacher, Casadio: tutti
eccellenti) a altri presi sul posto (la piccola Greta Zuccheri Montanari
ma anche i tanti vecchi dei luoghi, alcuni, da giovani, testimoni del vero
eccidio nazista), evita luoghi comuni e cadute retoriche. E riesce a
regalarci una delle più belle prove di un cinema finalmente necessario, di
altissimo rigore morale e insieme di appassionante e coinvolgente forza
civile. Un capolavoro. |
Paolo Mereghetti - Il
Corriere della Sera |
promo |
Monte Sole,
sulle colline bolognesi vicino a Marzabotto, inverno 1943. I
nazisti presidiano con determinazione la Linea gotica, i
partigiani si impegnano nell'infastidire e sabotare le azioni
degli occupanti, i civili cercano di campare alla meno peggio...
Non la ricostruzione artefatta di una pagina di Storia, ma il
prodursi di un evento che sembra accadere sotto i nostri occhi per
la prima volta. Diritti ci riesce sposando dall'inizio alla fine
lo sguardo dei contadini, secondo logiche e ritmi che non
appartengono alla Storia e alle sue guerre ma alla cultura
popolare, al rapporto con la natura, a quella concezione arcaica e
sacrale della vita già cara, con accenti diversi, a Olmi e
Pasolini. Un esercizio di straniamento poetico che ripaga lo
spettatore con un'emozione e una comprensione delle cose
straordinarie. Un microcosmo pulsante di affetti, dubbi, speranze,
paure, che acquistano un'innocenza, una densità, una verità,
scomparse nel cinema d'oggi. Un cinema finalmente necessario, di
altissimo rigore morale e insieme di appassionante e coinvolgente
forza civile. Un capolavoro. |