Lourdes,
terzo lungometraggio della regista viennese Jessica Hausner, ha
ricevuto a Venezia un’ottima accoglienza sia dalla critica che dal
pubblico, candidandosi da subito a ricevere un premio importante: così
non è stato, ed è un peccato, perché il film merita un'attenzione che
vada al di là della semplice curiosità per l’argomento trattato.
Christine (Sylvie Testud) è una ragazza costretta su una sedia a
rotelle, con la sola possibilità di muovere la testa. Spinta forse più
dal desiderio di uscire dal suo isolamento che da una fede profonda si
reca in pellegrinaggio a Lourdes: nel gruppo degli accompagnatori uno
in particolare (Bruno Todeschini) attira la sua attenzione. Una
mattina Christine si accorge di potersi muovere e di riuscire a
camminare: il miracolo da tutti atteso sembra aver toccato proprio
lei. In un attimo si trova ad essere al centro dell’interesse di
tutti, e la possibilità di intrecciare una relazione non sembra più
così lontana. Ma tutto ciò è destinato a durare?
Chi desidera sapere qualcosa di più su un luogo a suo modo misterioso
come Lourdes ha modo di entrare al suo interno e di esplorarlo. Il
film è stato preceduto da un’attenta fase di preparazione e ricerca,
durante la quale la regista ha più volte visitato il santuario per
andare al di là del primo scioccante impatto. Noi scopriamo così con
Christine tutte le procedure, i passaggi e i riti che regolano la
visita , e anche tutti i personaggi che si muovono con precisione
attorno a lei in questo luogo di dolore e speranza: i volontari
dell’assistenza ai malati (le giovani accompagnatrici dell’ordine di
Malta, gli ufficiali dello stesso Ordine), il gruppo dei malati con i
loro parenti, le infermiere, i medici scrupolosi al limite della
crudeltà, e naturalmente le suore e i preti preposti a garantire un
supporto spirituale.
Ogni gruppo è un piccolo plotone di un grande esercito che si muove
ordinatamente. Il funzionamento di questa grande
macchina, all'interno della quale ciascuno ha un ruolo preciso, è il
primo elemento che la regista fa emergere, con una scelta di
linguaggio costante, presente fin dalla prima inquadratura: la camera
fissa su uno spazio vuoto ci permette di osservare come questo si
riempia ordinatamente dando vita un disegno, come una danza di tessere
che vanno a comporre un mosaico. E sul gioco dei ruoli la regista
appuntava la sua attenzione anche nei suoi due primi film,
Lovely Rita
e
Hotel, consapevole di quanto far
parte di un sistema condizioni la nostra vita.
Proprio in questo luogo di interrogativi, "al" e "sul" sovrumano, più
chiara si svela la componente umana spesso
meschina, fatta di curiosità, pettegolezzi, invidie: la
Hausner
riesce a darle visibilità con tocco leggero, affidandosi sempre con
arguzia alla composizione dell’inquadratura. Così più che sul mistero
del miracolo, alla fine del film sappiamo qualcosa di più del gioco
della Commedia umana.
Non è che sul piano religioso il film abbia molto da dire: in questo
senso né turba né illumina. Alla regia il miracolo interessa come
forma in cui si concentra il mistero della vita: nella nostra ricerca
di realizzazione quanto conta il nostro comportamento e quanto rimane
insondabile? Il miracolo dunque come forma estrema di possibilità di
felicità, che tutti inseguiamo: nessuno sa se arriverà e quanto
durerà...
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