Il
problema è l’accumulo. Di fronte a
This Must be The Place
l’occhio resta estasiato, ma lo spirito critico è inquieto. Abbiamo a
che fare con un personaggio di grottesca depressione, una rock star in
disarmo, lontana dalle scene musicali ma anche da una qualche vivacità
esistenziale . Cheyenne (interpretazione mastodontica quella di Sean
Penn)
vive a Dublino, ha una moglie che fa il pompiere e che lo ama-accetta
con incongrua tenerezza, trova qualche scintilla di vivacità solo nel
rapporto “educativo” con una ragazzina scontrosa e più introversa di
lui… La sua immaturità “generazionale” (ah, i cinquantenni che non
hanno
sovvertito il potere e hanno perso anche l’immaginazione!) esplode nel
datato look dark-gothic (trucco pesante, rossetto vermiglio, capelli
ispidi e cotonati), nel bagaglio d’insicurezza “a rimorchio” (un
carrellino nel preludio
irlandese, un trolley nella trasferta USA), nel tormento che lo
attanaglia quando deve riconfrontarsi con la figura paterna, rimossa
da oltre trent’anni.
Un genitore che muore è sempre un momento forte nella vita di una
persona,
per Cheyenne è l’occasione per un viaggio di formazione che lo porta a
varcare l’oceano e a raffrontasi con un dramma mai
sopito nel cuore del genitore: l’esperienza dell’olocausto, la ricerca
dell’aguzzino nazista del campo di Auschwitz non hanno
cessato di tormentare la sua esistenza e tale rivelazione, attraverso
la lettura che Cheyenne fa dei diari, diventa l’innesco per un atipico
road-movie. Le tappe che ne segnano il percorso attraverso l’America
sono quelle legate all’indagine tesa a ritrovare quel vecchio tedesco
(sarà ancora vivo?) e si estrinsecano in una serie di incontri
bizzarri, commoventi, irrisolti… L’ultimo sarà il più spiazzante e
figurativamente suggestivo, contrappuntato da un inatteso monologo
“etico” su senso di colpa e vendetta…
A seguire
Sorrentino e il suo Cheyenne sulle strade d’America si resta affascinati
dall’incedere “a strappo” del racconto, dall’abbacinante iperrealtà
dei paesaggi (la fotografia al massimo della saturazione cromatica di
Bigazzi lascia senza fiato), dalla pulsione avvolgente delle musiche
di David Byrne, ma alla distanza il tutto si configura come un
affastellarsi di esibizionismi figurativi, un accumulo di inquadrature
da pop-cards, di battute sarcastiche stravaganti («La
solitudine è il teatro dei risentimenti» - «Ci hai fatto caso che
nessuno lavora più e tutti fanno un lavoro artistico?») ed
episodi/intrecci improbabili, sostenuti più da un’ambiziosa
sceneggiatura intellettual-eccentrica che da un coerente fluire
narrativo. Certo quello di
This Must be The Place è cinema a tutto
tondo, con scelte d’inquadratura impeccabili, una macchina da presa
che diventa spesso protagonista con sinuosi movimenti e primi e
primissimi-piani impietosi e toccanti; però se questo cinema on the
road di compiaciuta raffinatezza rimanda alle esperienze di
Lynch e
Wenders, il ricordo intrusivo di
Zabriskie Point
ci fa rimpiangere uno sguardo “americano” più ingenuo e grezzo. Se
l’incontro con David Byrne diventa per Cheyenne un momento salvifico,
per Sorrentino rischia di estremizzarsi nell’ibrido inviluppo di un
registro cinematografico che, guarda caso, funziona magistralmente per
la sequenza-concerto, ma che risulta, nel complesso dell’opera, non
del tutto convincente.
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