The Master,
l’atteso film di P. T. Anderson, racconta il rapporto che si viene ad
instaurare in seguito ad un incontro casuale, tra un reduce della
Seconda Guerra Mondiale, Freddie Quell (Joaquin Phoenix), violento,
alcolizzato e sessuomane e il leader di una setta denominata la
“Causa”, Lancaster Dodd (P. Seymour Hoffman), che si ripropone di
“guarirlo”, insegnandogli a tenere a freno la sua “animalità”.
Se nel corso del film emerge chiaramente il contesto socio politico di
un paese, ancora gravemente ferito dall’esperienza della guerra, nel
quale hanno potuto prendere piede sette come quella di Scientology
(alla quale e al cui leader carismatico Bon Hubbard il film si
ispira), quello che Anderson ha voluto maggiormente sviluppare è il
rapporto tra i due protagonisti: scavando nelle paure dell’uno e nelle
certezze dell’altro, ha posto al centro della narrazione il tema della
fragilità psicologica dell’uomo americano, in cui si può leggere il
bisogno di tutta una nazione di trovare chi la soggioghi e la guidi,
pur rivendicando il proprio bisogno di libertà.
The Master
si può quindi considerare un film politico nel momento in cui analizza
il rapporto servo-padrone, attraverso un ampio spettro di tematiche,
che vanno dall’attrazione ai limiti dell’omosessualità all’idea di
sanità mentale, dalla psicanalisi alla messa in discussione della
percezione sensoriale.
La mancanza di linearità narrativa, di cui è stato accusato il film,
in realtà è perfettamente funzionale alla diegesi.
Dopo averci presentato i due protagonisti e averci raccontato il loro
incontro sulla barca, in cui Dodd con la moglie (Amy Adams) e vari
adepti si sposta per l’America a raccogliere fondi e a portare la sua
parola di verità, il regista segue i percorsi emotivi e mentali dei
suoi personaggi, soffermandosi soprattutto sui loro incontri, in un
ballo di attrazione – repulsione, scontro – incontro, che ha le
caratteristiche di un rapporto di amore, come più volte sottolineato
dallo stesso Anderson nel corso della conferenza stampa.
Il vero pregio del film è proprio quello di moltiplicare all’infinito
questo gioco di incastri, limitandosi a porre delle domande sempre più
incalzanti allo spettatore, senza dare delle risposte: si veda la
locandina, che riproduce all’infinito l’immagine dei protagonisti su
una superficie cristallina.
Ovviamente un ruolo fondamentale è giocato dalle prestazioni dei due
attori, giustamente premiati entrambi con la Coppa Volpi. Phoenix,
lavorando interamente sul suo corpo, sulle smorfie del volto, sulla
gestualità nevrotica, esprime tutta la “bestialità” del suo
personaggio, la cui vulnerabilità rimane però impenetrabile, quasi che
Anderson non abbia voluto entrare troppo in profondità nella sua
testa. Freddie è il “Corpo”, un corpo che riesce ad avvicinarsi
soltanto alla donna di sabbia che ha costruito in riva al mare durante
la guerra e alla quale ritornerà dopo il fallimento del tentativo di
ricongiungersi con il suo primo amore Doris (che ritrova sposata a un
certo Jim Day e diventata così Doris Day!!!).
Hoffman all’opposto gioca tutto il suo personaggio sul linguaggio, di
cui usa tutte le sfumature dal dotto al faceto, dall’autoritario al
mellifluo-seduttivo e sul magnetismo dello sguardo, ora pieno di
meraviglia e di amore ora inflessibile strumento per incatenare a sé
l’allievo. Sguardi e linguaggio fanno di Dodd un personaggio
controverso, schizofrenicamente spezzato tra la figura del padre
amorevole e quella del leader autoritario, che ha fatto di sé un culto
vivente, un gigante, paragonabile al
Petroliere,
ma anche al Kane di
Quarto Potere.
Figura da odiare, ma che sa farsi amare.
All’estrema bravura degli attori, anche quelli con ruoli secondari,
come Amy Adams, l’enigmatica moglie o Laura Dern, l’adepta, si
accompagna la tecnica magistrale che guida le riprese, fatte di piani
sequenza strepitosi (la scena della prigione), raffinatissimi
campo-controcampo di primi piani (il test a “battito di ciglia”),
carrellate lunghissime (la corsa in moto) e anche riprese con macchina
a mano: un vero manuale di regia. Per non parlare della musica
straniante di Jonny Greenwood dei Radiohead e della bellissima
fotografia di Mihai Malaimare Jr., che, con l’uso insolito dei 70 mm.,
da un lato trasforma i volti dei personaggi, con le loro pieghe e le
loro ombre, in mappe dell’anima, dall’altro amplifica l’infinità di
paesaggi già sconfinati, in cui i personaggi si ritrovano soli, in
fuga verso qualcosa di indefinito (la fuga nel campo coltivato, la
corsa in moto nel Mojave).
Tutto ciò conferisce al film la dimensione epica del cinema classico,
al cui respiro narrativo Anderson si ispira, senza però mai rinunciare
a costruire un discorso completamente nuovo, che parla alla testa più
che al cuore e che, così come fanno i suoi personaggi, non segue
traiettorie precostituite. Confermandosi come uno degli autori più
interessanti del cinema contemporaneo, Anderson fa un grande film
sull’uomo, sulla sua ricerca di equilibrio, sulla sua insicurezza in
un mondo che gli è indifferente e sfida lo spettatore a domandarsi se
sia meglio un’angosciosa emancipazione che si accompagna alla
solitudine, oppure una rassicurante dipendenza che si accompagna alla
schiavitù.
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