Sleuth - Gli insospettabili
Kenneth Branagh - UK/USA 2007 - 1h 26'

Venezia 64° - Concorso


     Non molto spesso i remake soddisfano, almeno non i cinéphiles: chi osa cimentarsi con capolavori del passato – come tale può ben essere classificato Gli insospettabili, l’ultimo film di Joseph Leo Mankiewicz del 1972 –  non sempre ‘sa’ cosa dovrà affrontare. Evidentemente, in questo caso, Kenneth Branagh, forte da tempo di alcune versioni coraggiose intraprese tra Shakespeare e Mozart, Schikaneder e Losey, sapeva dove andare a parare e l’ha fatto in maniera davvero pregevole.
Innanzitutto ne ha fatto un film ‘interamente’ inglese: oltre a lui, lo è Anthony Shaffer, l’autore del dramma teatrale da cui è tratto, lo è il premio Nobel Harold Pinter, l’ex-Angry Young Man, che ne ha curato la stesura per il cinema e lo sono i due interpreti, Michel Caine che ‘scambia’ la parte che ebbe nella prima versione, quella del giovane qui interpretato da Jude Law - che già gli ha ‘copiato’
Alfie – con quella che fu dell’altro istrione Laurence Olivier.
E il tutto avviene in maniera quasi naturale, dal punto di vista recitativo - tutto è ‘mutatis mutandis’ ed, ancora una volta, teatro al cinema - e chi ne guadagna non è sicuramente il teatro, ma ancora una volta il mezzo comunicativo e visivo che gli ha fatto seguito, a distanza di tanti secoli.
Il risultato è un nuovo piccolo capo d’opera, ancora un gioco al massacro tra due uomini, uno vecchio ed uno giovane, che si scambiano nemmeno tanto pirandellianamente delle parti, in  un continuo, ribaltante gioco del doppio, e si contendono l’un l’altro una donna che non si vedrà mai (di cui ciò nondimeno si conosce tutto, gusti sessuali compresi), ma che, in realtà, mettono in competizione se stessi, la loro rispettiva generazione, la loro intelligenza e, perché no?, la loro medesima sopravvivenza: Mascolinità? Egotismo?
Tutto questo e molto di più, attraverso dialoghi al limite tra l’arguzia inglese più sottile e la volgarità più crassa, entrambe finalizzate ad un obiettivo di annientamento reciproco che pare sconfinare a tratti nell’autodistruzione ma per risollevarsi, un attimo dopo, la frase-battuta successiva.
Branagh, ottimo burattinaio per niente invasivo dietro le quinte, si gode quel duettare eccezionale tra Caine e Law - che sostiene con dignità la bravura straripante ed auto-compiacente dell’ormai vecchio, ma sempreverde, leone - e ne esalta la performance con primi piani a fior di schermo, tra le splendide rughe di Caine e l’acciaio dello sguardo di Law.
E geniali – è il caso di dirlo – sono gli espedienti  usati per ‘aggiornare’  il lavoro cinematografico, per farne davvero teatro al cinema up-to-date: la tecnologia è opportunamente al servizio della recitazione, degli escamotage visivi ben finalizzati per esaltare l’acutezza dell’interpretazione e per ricreare l'ambiente, l’abitazione di Caine - Andrew Wyke, artisticamente all’avanguardia e sfacciatamente lussuosa (un vuoto/pieno o un pieno/vuoto). Un tassello in più, nella sapiente regia di Branagh, per contrapporre l’esibizionismo della ricchezza raggiunta, grazie ad un lavoro intellettuale, dallo scrittore di gialli di successo, al tono dimesso del (presunto) avido, mediocre parrucchiere italo-inglese Law - Milo Tindle (Tindolini).
Una nota di merito, infine, per la  colonna sonora, opera di Patrick Doyle, legato a Kenneth Branagh regista, di cui fu direttore musicale nella prestigiosa compagnia teatrale Renaissance, fin dal suo Enrico V del 1989.

Maria Cristina Nascosi - MC magazine 20  settembre 2007

promo

La vicenda ha inizio con l'incontro tra un celebre, egocentrico scrittore di gialli Andrew Wyke, e un giovane e affascinante amante di sua moglie, l'attore di origine italiana Milo (Tindolini) Tindle. L'immediata competizione retorica tra i due uomini si trasforma rapidamente in un gioco raffinato e pericoloso... Un thriller da camera che sfocia nella dark comedy, una raffinata e brillante partita all'ultimo sangue tra due uomini in lotta per il possesso di una donna, fantasma che aleggia continuamente nei discorsi dei due e ideale protagonista invisibile della storia. Inquietante e divertente, grazie anche alle brillanti interpretazioni di Michael Caine e Jude Law, il film trova la sua forza anche nella raffinata ambientazione, perfetta incarnazione dell'animo ambiguo e imprevedibile del suo proprietario.



   Due attori che fanno scintille per un testo "a porte chiuse" firmato Anthony Shaffer, l'autore di Equus. È Sleuth - Gli insospettabili, remake dell'ultimo film diretto da J.L. Mankiewicz, grande maestro del cinema di parola, nel 1972. Molte e notevoli le differenze. Là il giovane Michael Caine affrontava il vecchio Laurence Olivier. Qui invece Caine è l'anziano giallista di successo mentre Jude Law è il giovane attorucolo di origine italiana che sta con sua moglie e viene a chiedergli di concederle il divorzio. Il resto è il classico gioco a gatto e topo ma chi è il gatto e chi il topo? Nella versione di Branagh, asciugata e riscritta nientemeno che da Harold Pinter (mentre Mankiewicz adattò da sé il testo di Shaffer) c'è anche un terzo personaggio: una fastosa villa high-tech tutta ascensori, video di controllo, computer, che moltiplica e svuota le immagini. In questa cornice, emblema della moderna ossessione per il dominio su tempo e spazio, il giallista tesse la rete destinata al giovane plebeo. Lotta di classe e di culture, rivincita dei vecchi sui giovani (e viceversa), ma anche, volendo, scontro fra recitazione (Law) e regia (Caine). Uno spettacolo di grande virtuosismo costruito a scatole cinesi. Con giochi di specchi addirittura vertiginosi quando nel duello entrano in gioco passioni (o finzioni?) gay.

Fabio Ferzetti – Il Messaggero

   La riscrittura di Pinter si distacca assai dalla vecchia stesura di Shaffer, soprattutto nella seconda parte. È molto più breve (86 minuti contro 138), non prevede altri personaggi (nel film di Mankiewicz c'erano), è una sonata per due solisti dove Caine è grandioso e Law regge bene il confronto. Si perde la «lettura classista» dell'originale, dove Olivier era uno snob azzimato e Caine un burino italo-cockney nel quale la rivalsa sociale prevaleva sugli affari di letto. Pinter non è uno scrittore realistico, è un creatore di macchine psicologiche e il suo Sleuth è la lotta di due uomini che, fingendo di contendersi una donna, si sfidano a chi è il burattinaio più astuto. Wyke vorrebbe convincere Tindle a tenersi la sua signora senza che si parli di divorzio, per non pagare gli alimenti, e a questo scopo invita il giovane a fingere un furto e a impossessarsi di alcuni preziosi gioielli (per i quali Wyke riscuoterebbe una ricca assicurazione); in realtà tra i due uomini si instaura un tortuoso gioco di reciproca seduzione che nel finale - la parte meno convincente - acquista addirittura venature gay. È abbastanza sterile stabilire una graduatoria fra i due film: quello di Mankiewicz rimane un capolavoro, questo è un brillante esercizio di stile al quale Branagh, Pinter, Caine e Law contribuiscono esattamente al 20% ciascuno. Un altro 20% va assegnato allo scenografo Tim Harvey, un signore di 70 anni che lavora con Branagh dai tempi di Enrico V e che ha creato un set «doppio» come i personaggi: antico fuori, modernissimo e iper-tecnologico dentro, con telecamere che sorvegliano ogni angolo della casa e compongono un film nel film: dove Wyke e Tindle credono di dominare, ciascuno, l'altro; ma sono invece dominati dall'occhio gelido del cinema...

Alberto Crespi – L'Unità

   Suggerirei di imbastire un corso universitario sul confronto fra i due testi, versione Shaffer e versione Pinter. Ne uscirebbe un manuale su come si scrive per lo spettacolo, a conferma dell' assioma (oggi condiviso da pochi) che in scena la parola è tutto. O quasi: perché ci vogliono anche gli interpreti, che qui sono di nuovo Caine nella parte che fu di Olivier (un giro di valzer che pochi interpreti hanno avuto l'occasione e il coraggio di fare) e Jude Law (sagace produttore del film) in veste di topo in trappola. Ci vuole anche un regista della classe di Branagh, che ha ambientato il duello in un contesto tecnologico e postmoderno e ha impresso alle varie fasi dello scontro un ritmo sempre incalzante giocando sulla sorpresa. Il suo segreto è accostarsi a una commedia di consumo con lo stesso impegno di quando realizza i suoi bellissimi Shakespeare. Senza contare la competenza nel dirigere la recitazione che hanno soltanto alcuni attori-registi, in grado di rendersi davvero utili ai colleghi che stanno sotto i riflettori. È anche per questa professionalità, discendente da secoli di gran teatro, che il cinema inglese, pur snobbato dalla critica e dalle giurie dei festival, è oggi il migliore del mondo.

Tullio Kezich Il Corriere della Sera

LUX - novembre 2007

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