Un padre e
un figlio. Due madri e due figlie. Un intreccio di destini che lega
Germania e Turchia in un nodo inestricabile e doloroso. Dopo il memorabile
La sposa turca,
Fatih Akin
torna alle identità divise e al gioco di specchi fra immigrati
di prima e seconda generazione, ma ribalta il problema. Stavolta la
dipendenza dalla cultura e dalle tradizioni turche non rovina la vita a
due giovani immigrati in Germania, ma coinvolge due ignare tedesche, madre
e figlia appunto. Come per dire che siamo tutti sulla stessa barca ed è
impossibile chiamarsi fuori (magari invocando "l'ingresso della Turchia in
Europa", come fa un po' ipocritamente Hanna Schygulla nel film, prima di
prendere coscienza). Perché le scelte e magari gli errori di una
studentessa di Istanbul che milita in un movimento clandestino sono
destinate a ripercuotersi sulla vita ordinata, troppo ordinata, di una sua
bionda coetanea di Brema, che per aiutare quella bella ragazza bruna e
piena di vita, a cui ha votato un'amicizia che non esclude l'amore, finirà
in guai molto seri. Così come un giovane professore turco, talmente ben
integrato che insegna letteratura tedesca all'Università di Brema, non
deve illudersi di aver chiuso i conti col passato e la tradizione. Basta
che il suo anziano padre, vedovo ma vitale, si porti a vivere in casa una
prostituta turca, per dare un colpo di acceleratore ai destini di tutti.
Anche perché quella matura prostituta dal seno florido e lo sguardo grave
è la madre della studentessa fuggita in Germania per evitare la polizia
turca, ma lei non lo sa, l'ha persa di vista da anni. E non lo saprà mai
nessuno.
Solo a noi infatti, in platea, è dato ricostruire questo puzzle di
esistenze che Akin smonta e rimonta in un gioco di flashback un poco
macchinoso che a tratti ricorda
Kieslowski ma anche il (quasi)
connazionale Edgar Reitz. Come se con
Ai confini del paradiso (ma il
titolo originale suona Dall'altra parte, il regista turco-tedesco avesse
voluto fare una specie di Heimat per i senza-Heimat; parlare della patria
di chi non ha patria, oppure ne ha due, che per certi versi è quasi
peggio, confrontando opzioni e culture, sentimenti e risentimenti.
Con un gioco fin troppo scoperto però, che non coglie fino in fondo le
promesse della prima parte, di gran lunga la migliore, quella dedicata ai
rapporti fra il padre puttaniere e il figlio intellettuale e irrequieto.
Per concentrarsi sul mondo femminile, che Akin tratteggia con generosità
ma senza evitare un certo schematismo. Come sempre accade quando anziché
vivere i personaggi sono chiamati a dimostrare qualcosa. Così alla fine
l'immagine che resta sono quelle due bare che passano dalla Germania alla
Turchia, e poi dalla Turchia alla Germania. Un monito. E un invito a
capire. |
Dopo
La sposa turca, un altro bellissimo film
di Fatih Akin che va alla ricerca delle proprie radici in una storia
intrecciata e multiculturale che confina con le rabbie di Fassbinder e con
uno sguardo sulla Istanbul di oggi dove sventolano le bandiere, come nei
libri di Pamuk. E come in
Babel, i percorsi sono paralleli:
affetti che non si incrociano, amori difficili, cortei pericolosi, rimorsi
e rancori svenduti anche post mortem. Alla base dell' aggiornato melò che
viaggia sulla linea Amburgo-Istanbul, un vecchio che sposa una prostituta
e per sbaglio la uccide, mentre il figlio di lui cerca invano la figlia
della donna. Che intanto, attivista politica, è scappata in Germania dove
ha conosciuto una ragazza di cui s' innamora e che per lei lascia la casa,
la madre (una ritrovata invecchiata ma grandiosa Hanna Schygulla, che si
prenderà sulle spalle ogni responsabilità) e le sicurezze. Molti colpi
bassi del destino sono ancora in serbo in questo disperato gioco dell' oca
in cui però ciascuno ha una sua attrazione d' amore e illusione di
vittoria, in una corsa ad ostacoli in cui soprattutto le donne si passano
il testimone della difesa dei diritti contro pregiudizi e burocrazie,
violenza e sospetti. Macchinoso ma limpido, nel suo scorrere a ritroso e
con un armonioso, giusto finale in riva al mare, chiamato a far da mito
fra i dannati della terra, il film è un ragionamento su pubblico e
privato, s'interroga sui trabocchetti della vita con la lotta armata, gli
amori diversi, le radici e le integrazioni impossibili se non affidate ai
libri e alla cultura come accade per il giovane turco, un professore di
tedesco che rompe vecchi cliché dei tempi fassbinderiani. Influenzato dai
rapporti e fattori umani Akin, di formazione turco-tedesca, svela il suo
rapporto di amore-odio donandone un pezzo ad ogni personaggio che si batte
con passione per far quadrare i propri bilanci. |