La sposa turca (Gegen die wand)
Fatih Akin - Germania 2003 - 2h 3'


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da La Repubblica (Roberto Nepoti)

     Sopravvissuti al tentativo di suicidio, Sibel e Cahit s'incontrano all'ospedale psichiatrico. Sono entrambi di origine turca, ma tutto il resto li divide. Lei, 20 anni, ama troppo la vita per sopportare una tutela famigliare che la soffoca; lui, 40, è un uomo autodistruttivo abitato da una legione di demoni. Non vedendo altra possibilità per sfuggire ai suoi, Sibel propone a Cahit un matrimonio bianco: coabiteranno, ma ciascuno coltiverà liberamente le proprie relazioni sessuali. L'uomo esita; poi accetta, intravedendo nel patto una speranza per sopravvivere. Finché, inatteso e divorante, l'"amour fou" s'insinua nelle loro esistenze. Non è messaggero di salvezza, ma di rovina. Benché ci fossero altri bei film in concorso a Berlino, quest'anno, La sposa turca aveva un valore aggiunto: un soggetto pericolosamente attuale come lo scontro di culture, la gestione della diversità, il permanere degli integralismi religiosi. Però ridurre il valore del film alle sue, più o meno implicite, tematiche sarebbe far torto Fatih Akin film successivo in archivio, trentunenne turco nato e cresciuto ad Amburgo. Il regista ha saputo imprimere alla storia una tensione in crescendo; rappresentare una Istanbul affascinate e paurosa; tradurre i conflitti culturali in una tragedia a forte valenza simbolica. Ma, soprattutto, ha scelto due interpreti perfetti per la coppia di agnelli sacrificali: una esordiente di inattaccabile purezza davanti alle brutture del mondo e un attore che pare minato da un oscuro male interiore, come un'icona punk.

da Il Corriere della Sera (Maurizio Porro)

     Che melodramma sia. La sposa turca, vincitore dell' Orso d'oro a Berlino, è la cronaca di un infelice matrimonio combinato in una clinica psichiatrica di Amburgo tra un'aspirante suicida e un derelitto alcolizzato, furibondo, drogato. Sono turchi e lei si illude di sistemare l'onore di una famiglia rigida e conservatrice, ma probabilità e imprevisti sentimentali rendono la vita a due un inferno completo di gelosia, perversioni, omicidio, prigione, redenzione, amore assoluto, fuga; e poi ancora la vita che ricomincia con amore, maternità, ritorno, dubbio. Ma il 31enne regista turco-tedesco Fatih Akin, con accesi colori fassbinderiani, evita la retorica del lieto fine, ha una capacità rara di coinvolgerti nel racconto e di dare a questa passionaccia una sua evidenza concreta e socioculturale, come in Tutti gli altri lo chiamano Alì. Andando al di là dei facili folklorismi del filone dei matrimoni etnici, greci o pakistani che siano, il film è ruvido e indigesto, una ballata post brechtiana di umiliati e offesi ma provvista di dolore autentico. E' un rabbioso, straripante, furibondo kolossal delle passioni ossessive e delle pulsioni sadomasochiste, commentato, mediato da un coro di musici ironicamente immobili sul Bosforo. Sono fantastici gli attori Birol Unel e Sibel Kekilli che offrono alla storia neo realista turca, e al suo pathos d'autore, un'immedesimazione totale che sfiora il male di vivere coniugato in un presente storico difficilissimo per tutti.

TORRESINO - gennaio 2005