Sopravvissuti
al tentativo di suicidio, Sibel e Cahit s'incontrano all'ospedale
psichiatrico. Sono entrambi di origine turca, ma tutto il resto li divide.
Lei, 20 anni, ama troppo la vita per sopportare una tutela famigliare che
la soffoca; lui, 40, è un uomo autodistruttivo abitato da una legione di
demoni. Non vedendo altra possibilità per sfuggire ai suoi, Sibel propone
a Cahit un matrimonio bianco: coabiteranno, ma ciascuno coltiverà
liberamente le proprie relazioni sessuali. L'uomo esita; poi accetta,
intravedendo nel patto una speranza per sopravvivere. Finché, inatteso e
divorante, l'"amour fou" s'insinua nelle loro esistenze. Non è messaggero
di salvezza, ma di rovina. Benché ci fossero altri bei film in concorso a
Berlino, quest'anno,
La
sposa turca
aveva un valore aggiunto: un soggetto pericolosamente attuale come lo
scontro di culture, la gestione della diversità, il permanere degli
integralismi religiosi. Però ridurre il valore del film alle sue, più o
meno implicite, tematiche sarebbe far torto Fatih Akin
, trentunenne turco
nato e cresciuto ad Amburgo. Il regista ha saputo imprimere alla storia
una tensione in crescendo; rappresentare una Istanbul affascinate e
paurosa; tradurre i conflitti culturali in una tragedia a forte valenza
simbolica. Ma, soprattutto, ha scelto due interpreti perfetti per la
coppia di agnelli sacrificali: una esordiente di inattaccabile purezza
davanti alle brutture del mondo e un attore che pare minato da un oscuro
male interiore, come un'icona punk. |
Che
melodramma sia.
La
sposa turca,
vincitore dell' Orso d'oro a Berlino, è la cronaca di un infelice
matrimonio combinato in una clinica psichiatrica di Amburgo tra
un'aspirante suicida e un derelitto alcolizzato, furibondo, drogato. Sono
turchi e lei si illude di sistemare l'onore di una famiglia rigida e
conservatrice, ma probabilità e imprevisti sentimentali rendono la vita a
due un inferno completo di gelosia, perversioni, omicidio, prigione,
redenzione, amore assoluto, fuga; e poi ancora la vita che ricomincia con
amore, maternità, ritorno, dubbio. Ma il 31enne regista turco-tedesco
Fatih Akin, con accesi colori fassbinderiani, evita la retorica del lieto
fine, ha una capacità rara di coinvolgerti nel racconto e di dare a questa
passionaccia una sua evidenza concreta e socioculturale, come in
Tutti gli altri lo chiamano Alì.
Andando al di là dei facili folklorismi del filone dei matrimoni etnici,
greci o pakistani che siano, il film è ruvido e indigesto, una ballata
post brechtiana di umiliati e offesi ma provvista di dolore autentico. E'
un rabbioso, straripante, furibondo kolossal delle passioni ossessive e
delle pulsioni sadomasochiste, commentato, mediato da un coro di musici
ironicamente immobili sul Bosforo. Sono fantastici gli attori Birol Unel e
Sibel Kekilli che offrono alla storia neo realista turca, e al suo pathos
d'autore, un'immedesimazione totale che sfiora il male di vivere coniugato
in un presente storico difficilissimo per tutti. |