Tre
giovani amici nella Campania di fine ‘800 si affiliano al movimento di
Giuseppe Mazzini credendo nell’ideale unitario nazionale. Presto le
loro strade si divideranno e i tre capitoli della narrazione a loro
dedicati li raccontano nella loro scelta e nel modo in cui il tempo su
loro scorre. Si rincontreranno più volte negli anni e si staccheranno
irrimediabilmente:
sono convinti dei loro ideali ma i modi diversi scelti per perseguire
il nobile scopo non renderanno possibili concilianti sguardi comuni e
amichevoli riappacificazioni. Mario Martone affresca il
Risorgimento
italiano raccontando trent’anni di storia patria nei quali giovani
ribelli diventano uomini risoluti e votati alla e poi anziani delusi
per il fallimento innato nell’ideale rivoluzionario da loro
perseguito. Il regista napoletano racconta come è stata unita
l’Italia, e ben lungi da lui è l’idea manierista, la retorica
dell’affresco per la quale quegli uomini erano tutti belli, buoni e
saggi, corretti, probi e onesti. Presto è chiaro che si trattò anche
di terroristi, di idealisti mossi dal pur nobile sprone unitario a
compiere atti talvolta vergognosi o deplorevoli. Con la stessa
decisione Martone tristemente afferma che quei giorni memorabili
avessero insito in essi, già, il fallimento, la
decadenza dell'oggi. Così sono forse spiegabili, nel film, quegli
oggetti anacronoistici che appaiono saltuariamente: costruzioni
moderne e fatiscenti, segno istantaneo della continuità del
fallimento, della transcronicità dell’e/orrore nella storia italiana.
Questi nodi tematici, l’antieroismo e il fallimento, governano il
terzo film italiano in concorso alla Mostra di Venezia e ne fanno
un’opera bella e necessaria, anzi indispensabile, che dovrebbe essere
proiettata ovunque: nelle scuole e nelle caserme, nelle piazze e in
televisione. Per quanto riguarda la forma Martone sa – si affida a uno
sceneggiatore come Giancarlo De Cataldo – che in Italia la Storia non
è mai una unica e inalienabile né mai considerata interessante da
parte dei cittadini che ne costituiscono il popolo. Come operano,
allora, i due autori? Vanno oltre il rischio di veder definito il
proprio lavoro come “didascalico-televisivo” e confezionano un film
che è esattamente così, lungi dal viscontiano lirismo e molto vicino
al Rossellini televisivo e al Giordana de La meglio gioventù (la
scelta di Luigi Lo Cascio come protagonista pare simbolicamente legare
i due film). Martone e De Cataldo colgono che questo è l’unico modo
che ha il film per essere mostrato e visto – la durata di 204′ non è
giustificabile altrimenti al giorno d’oggi – avvicinandolo al pubblico
di ogni target. Si è parlato di distanza dai temi internazionali e di
respiro straniero per questo sesto lungometraggio di Martone... un
premio qui al Festival in fondo poteva starci per autenticare
Noi credevamo
come opera-"testimone", denuncia non retorica né ideologica di quanto
poteva essere e continua a non essere in Italia.
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