Come
fare un film su Leopardi? Come tradurre in creazione filmica la vita
di un personaggio che suscita tanti contrastanti ricordi, stereotipi,
emozioni o ripulse in ogni italiano di media cultura? Come filmare la
poesia?
Una volta trovato lo splendido titolo (mutuato dal racconto
Pellegrinaggio alla tomba di Giacomo Leopardi di Anna Maria Ortese),
Mario Martone, alla fine di sette anni di ricerca, passati attraverso
tappe fondamentali come la riduzione teatrale delle Operette morali,
sceglie una via intermedia tra la narrazione puramente didascalica
(forse più adatta a uno sceneggiato televisivo) e l’individuazione di
pochi momenti fondamentali nella parabola leopardiana. Anche se in
maniera meno strutturata del suo precedente film
Noi credevamo, il
regista ci accompagna in un viaggio diviso in tre parti abbastanza
diverse tra loro.
La prima e più complessa è quella di Recanati,
dell’infanzia e adolescenza di “studio matto e disperatissimo”, in
compagnia dei fratelli e sotto l’occhio severo del padre Monaldo e di
una madre anafettiva. Sono gli anni (“il dolce irrevocabil tempo …”)
cui il suo pensiero tornerà sempre come a un paradiso perduto, in
contrasto con la realtà di una Natura indifferente e ingannevole; è
questa la parte più articolata, a volte spiccatamente teatrale, nella
quale Martone, e con lui l’interprete Elio Germano, non esitano a
cimentarsi nella (re)citazione di alcuni dei più famosi brani: ed ecco
“la siepe”, “la torre”, “l’orizzonte”, la crudele infatuazione per
Silvia.
Su tutto spicca lo spasmodico, frustrato desiderio di fuga dal natio
borgo selvaggio.
Le cose non migliorano per il poeta nella seconda parte, dedicata ai
soggiorni romano e fiorentino e agli aspri contrasti con l’ambiente
intellettuale dell’epoca che non ne riconosce il genio. D'altra parte
Leopardi, e su questo Martone insiste molto arrivando all’audace
confronto con Kurt Cobain (!), è fondamentalmente un ribelle. Come
dice Cesare Garboli e come forse anche noi avvertivamo confusamente a
scuola, Leopardi è, rispetto al suo tempo, un corpo estraneo, un
“meteorite”. In contrasto col pensiero politico dell’epoca, dice no
alle “magnifiche sorti e progressive” che sarebbero state la religione
degli ultimi due secoli. Giunge qui a compimento la sua visione senza
speranza del contrasto fra la natura e le aspirazioni umane. Sono di
questo periodo anche l’aggravarsi della malattia, l’insorgere e lo
svilupparsi dell’amicizia con Ranieri, l’ennesima grande disillusione
amorosa per Fanny.
Il film esplode veramente nella terza e ultima parte, quella
ambientata a Napoli, descritta come onirica, complice, disfatta,
corrotta e corruttrice, ma dove Leopardi sembra trovare la sua vera
patria. In contrasto l’impressionante episodio del bordello dove il
poeta “vergine adulto” viene trascinato da suoi nuovi amici.
Ma sarà nella terrazza con vista sul “pauroso Vesuvio” a Torre del
Greco e vicina a Pompei, simbolo dell’antichità classica distrutta e
ormai inutile, che Leopardi, e con lui Martone, raggiungono il vertice
con la poesia La ginestra. Muore forse di colera a 37 anni, come Mozart, come Raffaello, come Van Gogh e tanti altri.
Ottimo il cast da Massimo Populizio che interpreta il padre Monaldo, a
Michele Riondino nei panni del fedele Ranieri, compagno e protettore
degli anni napoletani, passando per Isabella Aragonese, la sorella
Paolina, e l’affascinante Anna Mouglalis, la Aspasia delle poesie,
alias Fanny. Su tutti un Elio Germano strepitoso nel difficile compito
di rendere lo struggimento interiore e il decadimento fisico estremo,
senza cadere nella trappola della caricatura. Raggiunge piuttosto toni
di leggiadra tenerezza nel colore degli abiti e negli atteggiamenti
bizzarri come la passione sfrenata per i gelati e l’immersione nella
realtà minuta dei bassi (sembra fosse arrivato a “dare i numeri”!).
Forse non un capolavoro, ma certo un’opera istruttiva (la vedremo
nelle scuole?), coinvolgente, capace di farci ri-amare e, perché no,
desiderare di conoscere meglio il poeta di Recanati, uscendo dallo
stereotipo scolastico del “pessimismo leopardiano”. Meglio forse non
si poteva fare.
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