Il giovane favoloso
Mario Martone - Italia 2014 - 2h 17'

concorso - VENEZIA 71



    Come fare un film su Leopardi? Come tradurre in creazione filmica la vita di un personaggio che suscita tanti contrastanti ricordi, stereotipi, emozioni o ripulse in ogni italiano di media cultura? Come filmare la poesia?
Una volta trovato lo splendido titolo (mutuato dal racconto Pellegrinaggio alla tomba di Giacomo Leopardi di Anna Maria Ortese), Mario Martone, alla fine di sette anni di ricerca, passati attraverso tappe fondamentali come la riduzione teatrale delle Operette morali, sceglie una via intermedia tra la narrazione puramente didascalica (forse più adatta a uno sceneggiato televisivo) e l’individuazione di pochi momenti fondamentali nella parabola leopardiana. Anche se in maniera meno strutturata del suo precedente film Noi credevamo, il regista ci accompagna in un viaggio diviso in tre parti abbastanza diverse tra loro.
La prima e più complessa è quella di Recanati, dell’infanzia e adolescenza di “studio matto e disperatissimo”, in compagnia dei fratelli e sotto l’occhio severo del padre Monaldo e di una madre anafettiva. Sono gli anni (“il dolce irrevocabil tempo …”) cui il suo pensiero tornerà sempre come a un paradiso perduto, in contrasto con la realtà di una Natura indifferente e ingannevole; è questa la parte più articolata, a volte spiccatamente teatrale, nella quale Martone, e con lui l’interprete Elio Germano, non esitano a cimentarsi nella (re)citazione di alcuni dei più famosi brani: ed ecco “la siepe”, “la torre”, “l’orizzonte”, la crudele infatuazione per Silvia.
Su tutto spicca lo spasmodico, frustrato desiderio di fuga dal natio borgo selvaggio.
Le cose non migliorano per il poeta nella seconda parte, dedicata ai soggiorni romano e fiorentino e agli aspri contrasti con l’ambiente intellettuale dell’epoca che non ne riconosce il genio. D'altra parte Leopardi, e su questo Martone insiste molto arrivando all’audace confronto con Kurt Cobain (!), è fondamentalmente un ribelle. Come dice Cesare Garboli e come forse anche noi avvertivamo confusamente a scuola, Leopardi è, rispetto al suo tempo, un corpo estraneo, un “meteorite”. In contrasto col pensiero politico dell’epoca, dice no alle “magnifiche sorti e progressive” che sarebbero state la religione degli ultimi due secoli. Giunge qui a compimento la sua visione senza speranza del contrasto fra la natura e le aspirazioni umane. Sono di questo periodo anche l’aggravarsi della malattia, l’insorgere e lo svilupparsi dell’amicizia con Ranieri, l’ennesima grande disillusione amorosa per Fanny.
Il film esplode veramente nella terza e ultima parte, quella ambientata a Napoli, descritta come onirica, complice, disfatta, corrotta e corruttrice, ma dove Leopardi sembra trovare la sua vera patria. In contrasto l’impressionante episodio del bordello dove il poeta “vergine adulto” viene trascinato da suoi nuovi amici. Ma sarà nella terrazza con vista sul “pauroso Vesuvio” a Torre del Greco e vicina a Pompei, simbolo dell’antichità classica distrutta e ormai inutile, che Leopardi, e con lui Martone, raggiungono il vertice con la poesia La ginestra. Muore forse di colera a 37 anni, come Mozart, come Raffaello, come Van Gogh e tanti altri.
Ottimo il cast da Massimo Populizio che interpreta il padre Monaldo, a Michele Riondino nei panni del fedele Ranieri, compagno e protettore degli anni napoletani, passando per Isabella Aragonese, la sorella Paolina, e l’affascinante Anna Mouglalis, la Aspasia delle poesie, alias Fanny. Su tutti un Elio Germano strepitoso nel difficile compito di rendere lo struggimento interiore e il decadimento fisico estremo, senza cadere nella trappola della caricatura. Raggiunge piuttosto toni di leggiadra tenerezza nel colore degli abiti e negli atteggiamenti bizzarri come la passione sfrenata per i gelati e l’immersione nella realtà minuta dei bassi (sembra fosse arrivato a “dare i numeri”!).
Forse non un capolavoro, ma certo un’opera istruttiva (la vedremo nelle scuole?), coinvolgente, capace di farci ri-amare e, perché no, desiderare di conoscere meglio il poeta di Recanati, uscendo dallo stereotipo scolastico del “pessimismo leopardiano”. Meglio forse non si poteva fare.

Giovanni Martini - ottobre 2014 - pubblicato su MCmagazine 36


 

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