Un mondo
fragile (La tierra y la sombra) |
Caméra d’Or - CANNES 68 |
Una umile casa al centro
di una infinita piantagione di canna da zucchero: un’isola scura immersa
nel mare grigioverde di fusti che tremano al vento. La gradazione della
luce e il dominio degli spazi fanno pensare a un quadro. E’ invece
un’inquadratura cinematografica tra le più belle di questa stagione. Non a
caso il film ha vinto la Caméra d’Or, il premio per il miglior esordio
all’ultimo festival di Cannes.
Un mondo fragile,
titolo che allude a una felice espressione di Papa Francesco, è in realtà
La tierra y la sombra opera prima del
colombiano César Augusto Acevedo, trentenne con maturità di sguardo e
sensibilità narrativa stupefacenti per l’età. Anche se da quel paese, come
da quelli limitrofi, arriva da qualche anno un cinema autentico e
consapevole, rurale (come questo di Acevedo) o metropolitano (come quello
di Desde Allà che ha vinto il Leone
d’oro a Venezia) al cui confronto il cinema dei giovani europei appare
spesso vecchio e insipido. A quella casa in mezzo al bosco di canne un
uomo fa ritorno dopo diciassette anni. Torna per accudire il figlio
gravemente ammalato o meglio per assistere alla sua morte ed è accolto
dalla pioggia di cenere rilasciata dai fuochi appiccati per intensificare
lo sfruttamento della piantagione. Una pioggia insolita, tremenda,
luttuosa, biblica come fosse un’ottava piaga. Quel pulviscolo grigio
ricopre i corpi, annerisce i volti, costringe le povere stanze della casa
a un buio opprimente, figlio di porte e finestre sbarrate. Nella sua
tragica bellezza la caduta della cenere è il cuore del dramma e, al tempo
stesso, la potente cifra stilistica che Acevedo impone al racconto. Il
vecchio, fuggito alla povertà del luogo, allo sfruttamento che l’industria
dello zucchero (consapevole del tramonto della cultura della canna) rende
ogni giorno più incivile, trova, tornando, una moglie indurita, un figlio
morente e una nuora e un nipote che non conosceva. Ricostruire i rapporti,
stabilirne dei nuovi è il suo progetto nonostante l’assenza di lavoro
renda quel ritorno provvisorio. Le parole sono ridotte al minimo, il ritmo
è lento, le inquadrature indugiano, ma Acevedo ha la capacità di fare
emergere dai gesti trattenuti e dall’assenza di parole i caratteri dei
personaggi secondo lezioni cinematografiche antiche che fanno pensare a
Ozu
e Dreyer. |
Andrea Martini - quotidiano.net |
...Opera
prima di César Acevedo,
Un mondo fragile
è tutto in un piano sequenza, quello iniziale. Un uomo si stacca dal fondo
e avanza con una valigia in mano lungo una strada sterrata, dietro di lui
un enorme camion compare sollevando al suo passaggio la polvere. Raggiunto
l'uomo con la valigia il mezzo produce un suono d'apocalisse avvolgendolo
in una nuvola di polvere. Polvere invalidante che penetra l'esistenza e
spezza il respiro degli uomini. In un minuto il regista colombiano
riassume quello che Christopher Nolan
ha impiegato lustri a spiegare: quella 'terra' è invivibile a lungo
termine per chi avesse deciso per un avvenire a lungo termine. Eppure da
qualche parte, nella Colombia arida di Acevedo, una donna prova a
resistere dentro la sua fattoria e a fianco del figlio, riparato sotto un
lenzuolo bianco, che rinforza poeticamente l'impressione di osservare
qualcuno già morto e protegge i suoi polmoni dal mondo esteriore, che
piove cenere, terra, polvere. |
Marzia Gandolfi - mymovies.it |
promo |
Alfonso, un vecchio contadino, dopo diciassette anni, torna dalla sua famiglia per accudire il figlio Gerardo, gravemente malato. Al suo ritorno, ritrova la donna che era un tempo la sua sposa, la giovane nuora e il nipote che non ha mai conosciuto, ma il paesaggio che lo aspetta sembra uno scenario apocalittico: vaste piantagioni di canna da zucchero circondano la casa e un'incessante pioggia di cenere, provocata dai continui incendi per lo sfruttamento delle piantagioni, si abbatte su di loro. L'unica speranza è andare via, ma il forte attaccamento a quella terra rende tutto più difficile... César Acevedo indaga con occhi (im)pietosi e lucidi il presente e il recente passato del suo paese, la fase acuta di una crisi sociale esplorata da un cinema vivo e meditativo, capace di tradurre il senso di un profondo disagio collettivo in un linguaggio di straordinaria espressività. Un piccolo capolavoro di rara intensità poetica. |
LUX
- settembre/ottobre 2015 |