Knight of Cups
Terrence Malick - USA 2015 - 1h 58'

    E venne il giorno di Terrence Malick!film precedente in archivio In una proiezione stampa gremita all’inverosimile, il regista americano più amato/odiato degli ultimi anni si ripresenta a Berlino (vincitore nel 1999 con La sottile linea rossa) con questo allucinato, stravagante, sontuoso, hollywoodiano film: Knight of Cups. E le perplessità, nonché forse una vera ondata di rifiuto a giudicare dalle prime recensioni apparse sulle riviste specializzate tipo Variety, aumentano.
Come ci spiega e poi commenta una voce fuori campo (tra l’altro di Ben Kinsley) “c’era una volta un re che manda il figlio in Egitto alla ricerca di una preziosa perla rosa (la conoscenza?), senonché il figlio è traviato dalle lusinghe del mondo, beve una pozione magica e cade in un profondo sonno (spirituale?). Riuscirà mai a tornare all casa del padre? etc. etc.” Sembra che qualcosa di simile esista nei Vangeli Apocrifi e, ad ogni modo, è evidente l’assonanza con la parabola del figliol prodigo.
Forse per giustificare il titolo (Knight of Cups è una figura dei Tarocchi), Malick si inventa poi, abbastanza artificiosamente, di inquadrare e scandire le varie sequenze del film con le figure degli Arcani Maggiori, ed ecco quindi La Luna, L’Appeso, L’Eremita, La Torre, La Morte... Senza però aiutarci più di tanto, in quanto non c’è mai corrispondenza tra il segno della carta e quanto avviene sullo schermo, cosicché la scansione in capitoli risulta sentenziosa e innecessaria.
Ma veniamo ai fatti.
Rick, il principe (l’attore Christian Bale) protagonista del film, è un giovane screen-writer della Los Angeles - Babilonia di oggi, il quale, impeccabilmente vestito Armani, passa la vita tra party volgari, droghe varie e futile mondanità. E’ evidente che ha smarrito il cammino (d’altra parte non lo vediamo mai lavorare), lo sguardo perso nel vuoto, vaga tra grattacieli, teatri di posa all’alba e numerose piscine. Non parla, brontola frasi sconnesse: “ho speso trent’anni della mia vita non vivendola, ma rovinandola”, “quando ho cominciato a sbagliare?”, “non ricordo l’uomo che volevo essere”. Insomma, è un’anima in pena, un sofferente che non riesce a trovare un senso in tutto quello che fa... o non fa. Ma per fortuna che esistono le donne. E qui entrano (portando un minimo di characters e di plot, altrove inesistenti) le donne della sua vita. C’è l’ultima fiamma conosciuta (Imogen Poots) partecipe del suo tormento esistenziale con frasi tipo “non stiamo vivendo la vita a cui eravamo destinati”, c’è l’ex moglie Cate Blanchett, medico, unico personaggio positivo, che lo mette o lo metteva in contatto con la realtà dell’ospedale e della sofferenza, c’è il grande amore incompiuto (Natalie Portman) con cui avrebbe potuto avere another chance, probabilmente un figlio mai nato. Ed altre 'splendide' avventure minori.
Il tutto scandito da dialoghi improbabili, inframezzato da tentativi in genere malriusciti di fare l’amore dentro e fuori dal letto, e concluso con l’immancabile passeggiata a piedi nudi nel mare di Santa Monica, d’altra parte conosciamo il valore purificatore e salvifico dell’acqua per Malick! Meno interessanti i personaggi maschili: un padre collerico e rissoso che lo rimprovera fin da bambino di essere come è, e cioè come lui, un fratello dalla vita tribolata, il fantasma di un altro fratello precocemente scomparso.
Non mancano le discese agli inferi, sia nella Bowery locale, sia nell’immancabile gita alla vicina Las Vegas. Naturalmente, trattandosi di Malick, Rick esce ad ogni piè sospinto da questo inferno sulla terra, ed eccolo a contemplare con sguardo trasognato albe, tramonti, rocce e nuvole e cascate (mancano gli alberi capovolti, quelli erano il piatto forte di
The Tree of Life). Il tutto ovviamente avvalendosi della splendida fotografia di Emmanuel Lubezki, abilissimo nel ritrarre una Los Angeles di straordinaria bellezza sia di giorno che di notte.
La cosa peggiore è che il film, volendo essere una stream of consciousness alla Joyce, si risolve in una cavalcata barocca di episodi senza collegamento se non appunto nella testa del protagonista: non c’è storia, non ci sono personaggi (tutti appaiono, dicono quattro battute e escono), ma solo un giustapporsi di cameos (orribile quello di Banderas). La stessa indubbia gradevolezza delle immagini femminili e dei paesaggi risulta stucchevole e pericolosamente vicina alla pubblicità di un profumo Dolce e Gabbana o al repertorio del National Geographic. Malick cerca, come già nei suoi film più recenti, di passare il messaggio di un cinema profondo, quasi spirituale, ma il gioco non funziona, il re è nudo, il suo è solo un manierismo cinematografico ripetitivo all’estremo, basato su una filosofia spicciola e quasi autoparodistico nei suoi risultati.
La nuova ritrovata vena di Malick dopo il 'lungo sonno' di 5 film in trent’anni, si esprime ormai a cadenza biennale, anche se il film sembra essere sempre lo stesso. E non intende fermarsi qui, c’è un’altra fiction in lavorazione, nonché è annunziato un documentario IMAX dal titolo minaccioso Voyage of time.
Knight of Cups ci parla invece, nonostante l’opinione contraria di molta parte della critica, di un artista chiuso in sé stesso, autoreferenziale, incapace di ritrovare i grandi temi di I giorni del cielo e di La sottile linea rossa, o l’incredibile verità premonitrice dei personaggi di La rabbia giovane. Ok, esiste l’arte astratta in pittura, esiste lo stream of consciousness in letteratura, ma ogni tentativo di trasferire queste forme d’espressione nel cinema è miseramente fallito.

Giovanni Martini - febbraio 2015 - pubblicato su MCmagazine 37