E
venne il giorno
di Terrence Malick!
In una proiezione stampa gremita all’inverosimile, il regista
americano più amato/odiato degli ultimi anni si ripresenta a Berlino
(vincitore nel 1999 con
La sottile linea rossa)
con questo allucinato, stravagante, sontuoso, hollywoodiano film:
Knight of Cups.
E le perplessità, nonché forse una vera ondata di rifiuto a giudicare
dalle prime recensioni apparse sulle riviste specializzate tipo
Variety, aumentano.
Come ci spiega e poi commenta una voce fuori campo (tra l’altro di Ben
Kinsley) “c’era una volta un re che manda il figlio in Egitto alla
ricerca di una preziosa perla rosa (la conoscenza?), senonché il
figlio è traviato dalle lusinghe del mondo, beve una pozione magica e
cade in un profondo sonno (spirituale?). Riuscirà mai a tornare all
casa del padre? etc. etc.” Sembra che qualcosa di simile esista
nei Vangeli Apocrifi e, ad ogni modo, è evidente l’assonanza con la
parabola del figliol prodigo.
Forse per giustificare il titolo (Knight of Cups
è una figura dei Tarocchi), Malick si inventa poi, abbastanza
artificiosamente, di inquadrare e scandire le varie sequenze del film
con le figure degli Arcani Maggiori, ed ecco quindi La Luna, L’Appeso,
L’Eremita, La Torre, La Morte... Senza però aiutarci più di tanto, in
quanto non c’è mai corrispondenza tra il segno della carta e quanto
avviene sullo schermo, cosicché la scansione in capitoli risulta
sentenziosa e innecessaria.
Ma veniamo ai fatti.
Rick, il principe (l’attore Christian Bale) protagonista del film, è
un giovane screen-writer della Los Angeles - Babilonia di oggi,
il quale, impeccabilmente vestito Armani, passa la vita tra party
volgari, droghe varie e futile mondanità. E’ evidente che ha smarrito
il cammino (d’altra parte non lo vediamo mai lavorare), lo sguardo
perso nel vuoto, vaga tra grattacieli, teatri di posa all’alba e
numerose piscine. Non parla, brontola frasi sconnesse: “ho speso
trent’anni della mia vita non vivendola, ma rovinandola”, “quando ho
cominciato a sbagliare?”, “non ricordo l’uomo che volevo essere”.
Insomma, è un’anima in pena, un sofferente che non riesce a trovare un
senso in tutto quello che fa... o non fa. Ma per fortuna che esistono
le donne. E qui entrano (portando un minimo di characters e di plot,
altrove inesistenti) le donne della sua vita. C’è l’ultima fiamma
conosciuta (Imogen Poots) partecipe del suo tormento esistenziale con
frasi tipo “non stiamo vivendo la vita a cui eravamo destinati”,
c’è l’ex moglie Cate Blanchett, medico, unico personaggio positivo,
che lo mette o lo metteva in contatto con la realtà dell’ospedale e
della sofferenza, c’è il grande amore incompiuto (Natalie Portman) con
cui avrebbe potuto avere another chance, probabilmente un
figlio mai nato. Ed altre 'splendide' avventure minori.
Il tutto scandito da dialoghi improbabili, inframezzato da tentativi
in genere malriusciti di fare l’amore dentro e fuori dal letto, e
concluso con l’immancabile passeggiata a piedi nudi nel mare di Santa
Monica, d’altra parte conosciamo il valore purificatore e salvifico
dell’acqua per Malick! Meno interessanti i personaggi maschili: un
padre collerico e rissoso che lo rimprovera fin da bambino di essere
come è, e cioè come lui, un fratello dalla vita tribolata, il fantasma
di un altro fratello precocemente scomparso.
Non mancano le discese agli inferi, sia nella Bowery locale, sia
nell’immancabile gita alla vicina Las Vegas. Naturalmente, trattandosi
di Malick, Rick esce ad ogni piè sospinto da questo inferno sulla
terra, ed eccolo a contemplare con sguardo trasognato albe, tramonti,
rocce e nuvole e cascate (mancano gli alberi capovolti, quelli erano
il piatto forte di
The Tree of Life).
Il tutto ovviamente avvalendosi della splendida fotografia di Emmanuel
Lubezki, abilissimo nel ritrarre una Los Angeles di straordinaria
bellezza sia di giorno che di notte.
La cosa peggiore è che il film, volendo essere una stream of
consciousness alla Joyce, si risolve in una cavalcata barocca di
episodi senza collegamento se non appunto nella testa del
protagonista: non c’è storia, non ci sono personaggi (tutti appaiono,
dicono quattro battute e escono), ma solo un giustapporsi di cameos
(orribile quello di Banderas). La stessa indubbia gradevolezza delle
immagini femminili e dei paesaggi risulta stucchevole e
pericolosamente vicina alla pubblicità di un profumo Dolce e Gabbana o
al repertorio del National Geographic. Malick cerca, come già nei suoi
film più recenti, di passare il messaggio di un cinema profondo, quasi
spirituale, ma il gioco non funziona, il re è nudo, il suo è solo un
manierismo cinematografico ripetitivo all’estremo, basato su una
filosofia spicciola e quasi autoparodistico nei suoi risultati.
La nuova ritrovata vena di Malick dopo il 'lungo sonno' di 5 film in
trent’anni, si esprime ormai a cadenza biennale, anche se il film
sembra essere sempre lo stesso. E non intende fermarsi qui, c’è
un’altra fiction in lavorazione, nonché è annunziato un documentario
IMAX dal titolo minaccioso Voyage of time.
Knight of Cups
ci parla invece, nonostante l’opinione contraria di molta parte della
critica, di un artista chiuso in sé stesso, autoreferenziale, incapace
di ritrovare i grandi temi di
I giorni del cielo
e di
La sottile linea rossa,
o l’incredibile verità premonitrice dei personaggi di
La rabbia giovane.
Ok, esiste l’arte astratta in pittura, esiste lo stream of
consciousness in letteratura, ma ogni tentativo di trasferire
queste forme d’espressione nel cinema è miseramente fallito.
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