Completamente
ignorato dalla critica (nessuno dei grandi quotidiani nazionali l’ha
recensito) l’ultimo lavoro con cui il veterano regista coreano Im
Kwon-Taek (102 film dei più diversi generi all’attivo) si presenta a
Venezia, è un film in assoluta controtendenza rispetto al mainstream
cinematografico di Kim Ki-Duk e compagnia.
Agli antipodi della compiaciuta esibizione di violenza e sadismo, così
comune nel recente cinema coreano,
Revivre è un film sapiente e
delicato, pieno di grazia e comprensione umana, tutto girato sugli
sguardi, i sentimenti e le cose non dette.
È un film sulla vita e sulla morte: la morte che entra
prepotentemente nella nostra esistenza con la malattia di una persona
cara; la vita e cioè la possibilità dell’amore e del ricominciare, che
è sempre lì a chiamarci, a tentarci, anche quando l'età, la dignità,
il senso del dovere in una persona moralmente integra ne esclude la
realizzazione.
Il protagonista Oh (l’attore Ahn-Sung-Li, già visto in
Ebbro di donne
e di pittura)è un uomo arrivato
- a capo di una famosa ditta di
cosmetici (adorato dai dipendenti), figli sistemati, casa al mare - che
entra in un tunnel di dolore e frustrazione quando alla moglie è
diagnosticato un incurabile tumore al cervello. Sono quattro anni di chemio, operazioni, miglioramenti, ricadute che egli affronta con
amore e dedizione sincera, ricacciando l’inconscio, inconfessabile
desiderio che tutto finisca al più presto. Il suo tormento è reso
particolarmente crudele dal fatto che, nel frattempo, è entrata nella
ditta e nella sua testa Eun-Joo (Ho-jung Kim), giovane e avvenente
direttrice di marketing per la quale egli prova un’irresistibile
attrazione, fino ad arrivare a trasfigurarla nei suoi sogni in un
simbolo inarrivabile, quasi diabolico, di bellezza e di vita.
In un gioco di continui flashback e salti in avanti, nella cornice del
suntuoso funerale tradizionale della moglie con cui il film inizia e
finisce, il regista accompagna Oh, con grande realismo, ma nessun
compiacimento, nella terribile quotidianità di un corpo che perde
letteralmente il controllo di se stesso. Bellissima la scena in cui Oh
si sforza di fare l'amore con la moglie, ormai debilitata e forse
conscia della di lui infedeltà mentale, per farla sentire ancora una
volta donna e oggetto d’amore.
Dall’altra parte, la ragazza, scrupolosa sul lavoro, quasi sottomessa,
intenta ai preparativi del suo prossimo matrimonio, sembra non
rendersi conto dei sentimenti che suscita.
Solo verso la fine, dopo le esequie della moglie, intuisce qualcosa:
vorrebbe allora aprirsi, certo capire, lo cerca (ed è qui l'unica
concessione al melodramma). Oh non risponde, cancella messaggi e
numero di telefono, si avvia verso il suo destino di consapevole
solitudine.
Sempre in controtendenza rispetto alle tenebrose immersioni sociali di
altri cineasti del suo paese, Im Kwon-Taek ci fa un ritratto
(specialmente nelle scene delle riunioni aziendali ad alto tasso
alcolico) ironico e realista del mondo del lavoro nel colosso
economico coreano: il senso molto orientale del dovere, delle
gerarchie, un'etica omnipervasiva, le relazioni sociali e familiari,
dove certamente le fantasie erotiche del protagonista non trovano
spazio.
L'attore Ahn-Sung-Li, sulle cui minime emozioni la macchina da presa
indugia con grande efficacia, è assolutamente credibile nella sua
umanità scissa e distorta. Inquietante il fatto che in coreano Hwa
Jang significhi contemporaneamente make-up e cremazione, e qui ci
viene in mente quell’altro straordinario film che è stato il
giapponese
Departures.
Applausi per tutti in sala, in primis per la effettivamente splendida
Ho-jung Kim; a proposito, era fuori concorso!
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