da L'Unità (Alberto Crespi) |
Designer di abbigliamento sportivo, Baylor, quando il film comincia, ha appena lanciato un nuovo modello di scarpa che si rivela un fiasco colossale. Da giovanetto viziato e superpagato. diventa all’improvviso uno sfigato qualsiasi. Ecco, la cosa importante è che Crowe non lo fa ridiventare, alla fine, il viziato dell’inizio. Visto che la storia è ampiamente autobiografica questo la dice lunga su ciò che Crowe pensa di se stesso e dei valori del mondo che lo circonda: anche lui, come Baylor, è un provinciale che ha avuto successo e la coscienza che il successo può finire da un momento all’altro non l’ha abbandonato. Meglio per lui. Ovviamente Crowe non fabbrica scarpe, ma storie. É sceneggiatore e cineasta di vaglia (Quasi famosi, Vanilla Sky) ed è un raro esempio di outsider (nasce come giornalista musicale) che ha sfondato a Hollywood. L’aspetto davvero autobiografico del film è ciò che, a Baylor. succede subito dopo il disastro professionale: mentre il ragazzo sta meditando il suicidio, gli arriva la notizia che suo padre è morto. Non solo: la madre (da tempo separata dal coniuge) e la sorella incaricano Drew di recarsi a Elizabethtown. la cittadina dove il padre si era stabilito, a recuperare la sua salma. Di fronte a questa morte. Drew decide che il suicidio può aspettare e parte per il Kentucky, dove dovrà giocare fuori casa: non solo la numerosa famiglia «sudista» del babbo gli è pressoché ignota, ma è ferocemente contraria all’idea di consegnare il defunto alla vedova, che tutti detestano. Sperduto in partibus infidelium Drew è spaesato e depresso, ma a salvarlo intervengono due cose: l’inaspettato calore dei parenti (la famosa southern hospitality, l’ospitalità di cui il Sud degli Usa è tanto orgoglioso) e l’improvvisa confidenza con una graziosa hostess, Claire, che l’ha accudito durante il, viaggio in aereo. Come avete capito, Elizabethtown è la storia di un ritorno alla vita. É un film pieno di cose, alcune bellissime (come lo show della vedova Susan Sarwidon, che a un certo punto irrompe al funerale) e alcune più artefatte; un po’ troppo «di testa». Spesso, in Crowe, lo sceneggiatore prevale sul regista e lascia che i dialoghi prendano il sopravvento (si veda, al proposito, l’estenuante telefonata notturna fra Drew e Claire, troppo scritta e troppo finta). C’è però, nel film, tanta «ciccia», tanta carne al fuoco, e molta è di ottima qualità E c’è uno sguardo, affettuoso e critico insieme, sulla provincia americana che di rado, nel cinema recente, è stata osservata con tale profondità (l’unico vero termine dì paragone è A proposito di Schimdt dì Alexander Payne). Meravigliosa, in questo senso, la lunga sequenza del viaggio di ritorno di Drew che seguendo le indicazioni di Claire, attraversa in auto mezza America: se esiste una versione aggiornata e postmoderna dei viaggi di Kerouac, è qui. |
da Il Messaggero (Fabio Ferzetti) |
Come molti ex-ragazzi prodigio, Cameron Crowe non ha ancora deciso cosa farà da grande. Così, a 48 anni e dopo aver diretto lavori diversissimi per ambizioni e riuscita come Singles, Jerry Maguire, Vanilla Sky, Almost Famous (il migliore), l’ex-critico musicale di Rolling Stone continua a sbagliare i film perché non sa che film vuole fare. Elizabethtown, commedia romantica, guarda a Frank Capra, a Preston Sturges, ovviamente a Billy Wilder (cui Crowe ha dedicato un monumentale libro-intervista). Ottimi padrini, ma dosi sbagliate. Troppo zucchero, troppe divagazioni, troppe carinerie, troppe battute incomprensibili fuori dagli Usa. Anche sveltita dopo Venezia, la love story a miccia lenta fra l’ex-manager fallito diretto nel Kentucky per i funerali del padre e quell’hostess petulante che si rivela un prodigio di tatto, umorismo, umanità e sex-appeal, viaggia a corrente alternata. Non mancano i momenti toccanti, i personaggi azzeccati, le trovate felici (Bloom smarrito al volante, e l’intera città che gli indica a gesti la strada). Manca il ritmo, la solidità narrativa, la coerenza profonda che renda davvero interessanti le peripezie dell’uomo-da-un-miliardo-di-dollari (in attesa di finire sui giornali per il suo clamoroso fallimento) e della Signorina Nessuno che invece sa tutto e soprattutto sa amare. Siamo pronti a scommettere che Crowe è partito dalla fine, cioè dal pellegrinaggio sentimentale di Bloom nei luoghi dei miti pop Usa. Ma nonostante la grazia, l’energia, il magnetismo dell’effervescente Kirsten Dunst, ci si arriva stanchi. Errore fatale, in un viaggio. No, le commedie romantiche non sono più quelle di una volta. O forse bisogna avere il coraggio di virarle in acido. Come faceva Zach Braff in Garden State, quasi identico almeno nel “plot”. |
da Il Mattino (Valerio Caprara) |
Sottoposto a considerevoli tagli & rammendi dopo il poco apprezzato esordio veneziano, Elizabethtown ribadisce, in effetti, l'alterno talento del quarantottenne Cameron Crowe, l'autore di un piccolo capolavoro come Almost Famous e di uno dei film più brutti degli ultimi tempi, Vanilla Sky. Non a caso quest'ambiziosa versione di commedia sentimentale è troppo divagante e squilibrata per arrivare a una sintesi spettacolare: nel ricambio frenetico di situazioni, ritmo e atmosfere si perde continuamente il filo espressivo e si passa come in una doccia scozzese dal sarcastico allo smielato, dal romantico al sociologico, dal surreale al musicale. Molto amato dalle ragazzine come efebico eroe de Le crociate e Il Signore degli Anelli, Orlando Bloom ritorna contemporaneo nelle vesti di uno yuppie sull'orlo dell'esaurimento nervoso: per una sfortunatissima coincidenza, infatti, rimane orfano del padre nello stesso momento in cui si rende conto di aver spinto al disastro l'azienda per cui lavora sbagliando il design di un paio di avveniristiche sneaker. Nel corso del viaggio verso il remoto paese natale del Kentucky Elizabethtown, dove lo aspetta una madre affranta ma quanto mai combattiva (Susan Sarandon), incontra una paffuta, mattoide biondina (Kirsten Dunst) che lo fa innamorare nel giro di poche ore e riesce a restaurare la sua ammaccata personalità. Un tourbillon agrodolce immerso nell'atmosfera della campagna americana e in una compilation rockettara di grandissima presa (Dylan, Elton John, Ryan Adams), ma fatalmente prevaricante sulla miriade di motivi e sottomotivi farciti nella sceneggiatura. Per affrontare le fatidiche problematiche giovanili del consumismo, del mito del successo e del potere, della ricerca d'identità e di valori, dei rapporti con genitori e amici, degli equilibri di coppia, Crowe s'industria a mettere a fuoco materiali eterogenei e a fondere stili inaccostabili, col risultato di mancare gli obiettivi psicologici e annacquare quelli schiettamente farseschi. Lo stesso clou del film coprodotto da Tom Cruise - il party in onore del defunto che si risolve in un furioso tafferuglio all'ombra del vessillo a stelle e strisce - lascia interdetti sia per la mancanza di misura che per l'eccesso di pretensione drammaturgiche. Ne è emblema e suggello la sequenza della vedova Susan Sarandon che balla il tip tap, un po' (troppo) esilarante e un po' (troppo) kitsch a seconda dei gusti. |
TORRESINO
- dicembre 2005