da Il Corriere della Sera (Maurizio Porro) |
Campione d'incassi tedesco, il film di Dani Levy, che da grande vorrebbe essere Billy Wilder, si concede il lusso di ironizzare sulla religione, mira l'ortodossia ebraica e sta in equilibrio delicato su un tema pericoloso con la sfacciataggine tipica dell'autoironia. È alla fine una divertente commedia-farsa degli equivoci in cui un poveraccio sul lastrico di Berlino Est, per ereditare dalla madre morta a Ovest deve riunirsi col fratello, ebreo assai osservante, ospitandone la famiglia e diventando in breve un esperto di sinagoghe, sabbath, Torah e Shiva. Ne capitano di ogni, finti attacchi di cuore e vere sfide di biliardo, amori casalinghi, un dialogo spiritoso sul filo dell' understatement da Woody Allen, critica politica sulle due Germanie e un cast variopinto in cui nessuno è un vero ebreo. Importante era rompere il tabù con intelligenza, misura, affettuosa complicità: fatto! |
da La Repubblica (Roberto Nepoti) |
Se il cinema è anche uno specchio in cui si riflette la società, vale la pena di registrare una (contro) tendenza di oggi. Sullo schermo abbiamo visto tante volte gli ebrei costretti a fingersi “goyim” (gentili) cercando di salvarsi la vita; oggi, i personaggi dei film ostentano invece le proprie origini ebraiche, magari millantandole (Vai e vivrai, Lord of War). In Zucker, successo in Germania, il protagonista è ebreo di nascita ma, cronista sportivo e acchiappasottane nella Berlino Est, ha appeso al chiodo identità e religione da decenni. Ora, per Jakob detto Jaeckie le cose sono cambiate: caduto il Muro, l’uomo vivacchia giocando a biliardo e accumula i debiti, mentre sua, moglie minaccia di andarsene.. La soluzione sembra venire colla dipartita di mamma, che però ha imposto una condizione: prima di incamerare la sua parte di eredità, Jaeckie dovrà tornare a essere Jakob, riconciliandosi con l’ultra-ortodosso fratello Samuel. Il quale è in arrivo a casa sua, accompagnato da tutta la famiglia. “Non è mai troppo tardi per diventare ebrei” sentenzia la consorte, gettandosi in un corso accelerato di lingua, religione e cucina kosher. Suo marito, invece,è ben deciso a partecipare a un campionato di biliardo, in cui ha riposto le ultime speranze. Come conciliare il fitto rituale della shivà, la settimana di lutto che esclude ogni attività sociale, con le sedute al tavolo verde? Jaeckie simula un attacco di cuore, facendosi ricoverare e fingendo ricadute a ogni una nuova partita. L’alternanza tra riti religiosi e rito sportivo è il nocciolo duro di una commedia degli equivoci a sfondo nero parecchio riuscita, un po’ appesantita dai dilagare della voce narrante del protagonista, però graffiante e beffarda nell affrontare argomenti delicati come il rapporto dei tedeschi col popolo ebraico o il dopo-Muro. Pur nella scelta grottesca, lo sceneggiatore e regista del film, Dani Levy, mantiene un tono equilibrato: alterna scene comiche con altre più serie, senza abbandonarsi alle tentazioni dei cinismo. La sua è una commedia famigliare, non priva di sfumature psicologiche, nella tradizione dell’umorismo ebraico. Che - ce lo hanno dimostrato Lubitsch, Allen e altri grandi - si preoccupa assai meno del politicamente corretto che di rappresentare le debolezze umane in modo diretto, autoironico e, al caso, anche sfacciato |
TORRESINO
- dicembre 2005 /gennaio 2006