Il
nuovo film del tedesco hollywoodiano Roland Emmerich
,
tra le penombre della Londra del XVII secolo, va alla radice con un
kolossal thriller sullo scambio d’identità: chi era Shakespeare? É
esistito davvero? Non è uno scoop, da secoli si dibatte, illazioni molte
(anche che Scespir fosse un italiano, Nord Est?) ma sicurezze poche. Sul
problema si sono interrogati Mark Twain e Freud, Chaplin e
Welles, per cui
Emmerich, regista action d’attacchi alieni,
Godzilla e fini del mondo , si
sente in buona compagnia, avendo fatto culturalmente un passo avanti. Il
regista è tra gli «anti stratfordiani» cioè tra quelli che non credono
alla favola del ragazzo incolto e di umile famiglia di Stratford che ha
scritto 37 capolavori e 154 amorosi sonetti; invece si riconosce ne gli «oxfordiani»
che, come sostiene il film, vedono in Edward De Vere, conte dandy di
Oxford che di soprannome faceva «spear shaker», consigliere legatissimo
alla regina Elisabetta I, il vero autore sotto mentite spoglie
dell’immortale corpus teatrale di cui non c’è traccia nell’eredità quando
William morì nel 1616.
E qui l’autore, seguendo il suo fiuto per ogni catastrofe anche postuma,
mescola la storia letteraria ai disordini politici, alla lotta per la
successione al trono tra i Tudor e il conte di Essex. Nella storia,
raccontata in flash back da un attore, Derek Jacobi, sul palco scenico —
dove se no? — ecco trame, colpi di scena, scandali, intrighi a lume di
candela, incunaboli di copioni (Romeo e Giulietta, La dodicesima notte,
Giulio Cesare...), firme svolazzanti, amori segreti, tutto il melò degli
affetti, mescolando due piani temporali in modo non sempre limpido mentre
la sceneggiatura di John Orloff non si dimentica di Amleto.
E sempre in un teatro (vedi il Valle a Roma) che cade la coscienza del Re.
Anche se la fattura registica non ha colpi d’ala, la garanzia sta nel
potere espressivo dei protagonisti: Vanessa Redgrave, prossimo Oscar alla
carriera, è un’Elisabetta da antologia e la figlia Joely Richardson la
sostituisce da giovane con un dna mattatoriale, mentre il gallese Rhys
Ifans (Notting Hill,
L’amore fatale) è il sottile, diabolico finto Bardo.
Nel gruppo d’epoca valorizzato da scene e costumi di una Londra di cinismi
in offerta speciale, indietro nel tempo ma sempre attuale, non mancano gli
elisabettiani Ben Jonson e Christopher Marlowe, perché il jolly del film è
sempre il teatro, qui palpitante con meravigliosi pezzi. |
L'Anonymous
del titolo è il personaggio che secondo una certa scuola di pensiero
avrebbe scritto le opere passate alla storia sotto il nome di Shakespeare,
sulla cui vera identità si specula da secoli senza certezza. La tesi qui
abbracciata è quella de gli «Oxfordians», convinti che per parlare con
tanta cognizione di uomini di potere, ci volesse qualcuno appartenente a
quel mondo come Edward De Vere, XVII duca di Oxford. Teoria che studiosi
come James Shapiro, reputano assurda e infondata. Tuttavia, il film
racconta non solo di come avvenne che i drammi di De Vere furono
attribuiti a uno spregiudicato e ignorantello capocomico; ma anche di
segreti rapporti fra Elisabetta I e De Vere, di figli bastardi e di
complotti per designare eredi al trono. […] Gli interpreti, a partire da
Rhys Ifans/De Vere, sono ottimi; la ricostruzione della Londra d’epoca
suggestiva e la regia di Emmerich professionale. Ed è fantastico come il
Bardo continui ad alimentare direttamente e indirettamente la fantasia dei
posteri.
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