Si
può raccontare la vita, l’amore, il sogno di una generazione
attraverso le canzoni? Si può costruire un film musicale attraverso un
ininterrotto flusso di parole e musica che ne costituiscono l’essenza
narrativa, ne strutturano l’ispirazione, ne configurano la messa in
scena? Tutto è possibile se le canzoni sono quelle dei
Beatles!
“Is there anybody going to listen to my story?” - "C’è qualcuno che voglia sentire la mia storia?". Sulla spiaggia, solitario, Jude, il protagonista (Jim Surgess, simpatica sintesi fisiognomica dei Fab Four) si affida alle battute iniziali di Girl per accendere la miccia di un viaggio cinematografico di esplosiva espressività, vibrante delle melodie e delle pulsioni degli anni ’60. Jude lavora in fabbrica a Liverpool (!), ma decide di imbarcarsi per l’America allo scopo di ritrovare il padre che non ha mai conosciuto. In Inghilterra lascia la fidanzata (promette di “spedirle tutto il suo amore”- All my Loving) ma viene travolto dall’atmosfera effervescente di New York, trova l’amicizia e l’aiuto di Max (With little help from my friends, ovviamente), si innamora a prima vista della sorella di lui, Lucy (I’ve Just Seen a Face – “ho appena visto un viso”). Situazioni e canzoni ricontestualizzate (il riferimento, più che il musical classico, è Parole, parole di Resnais), personaggi dai nomi “eloquenti” (c’è anche l’appassionata Prudence, la cantante Sadie - sul modello di Janis Joplin -, il chitarrista Jo Jo - su quello di Hendrix): l’operazione Across the Universe non è fatta solo di nostalgia ma di una ricchezza figurativa e di un impatto emotivo originalissimi e travolgenti. E ogni canzone, al di là della sua identità mitica, riacquista vita, senso, nuova emblematicità. Come Together si trasforma in un inno aggregante per la poliedrica fauna umana della metropoli (impeccabili yuppies in giacca, cravatta e 24 ore accanto ad un variopinto gruppo di squillo al seguito di un ricco magnaccia - interpretato da Joe Cocker), Let it Be diventa un gospel sulle labbra di un ragazzino nero vittima degli scontri razziali di Detroit, I am the Warlus (con il cameo di Bono-Dr.Robert) e Being for the Benefit of Mr. Kite (con Eddie Izzard) testimoniano la verve mistico-psichedelica della beat-generation. C’è spazio per le contraddizioni delle istanze di pace di fronte alle tragedie delle violenza (dalla guerra del Vietnam all’assassinio di Martin Luther King), c’è l’estasi della sublimazione sentimentale (suadente il kitsch acquatico di Because) e l’impeto passionale di fronte a un impegno politico estremizzato (Revolution “recitata” per evidenziare il gap d’ideali non condivisi), c’è il mesto rientro di Jude nel vecchio continente e l’irrefrenabile abbraccio musicale di Max quando, spinto dall’amore per Lucy, l’amico riapproda negli USA (Hey Jude, “don’t let me down, you have found her now gow and get her” – “non mi deludere, l’hai trovata ora vai a prenderla”). C’è l’utopia che “Nothing’s gonna change my world” (Across the Universe, titolo di perfetta sintesi per questo affresco vintage), c’è l’estro creativo dello scenografo Mark Friedberg (quella composizione materica di fragole sanguinanti appese al muro ha il sapore di una nuova strofa, proprio “da Lennon-McCartney”, per Strawberry Fields Forever) e quello del coreografo Daniel Ezralow: quando, a rievocare l’esibizione dei Beatles sui tetti della Apple, tutti i protagonisti si ritrovano nel finale per un concerto di love & peace “sopra” gli occhi stupefatti dei passanti, l’emozione ha un sapore antico. All you Need Is Love canta Jude alla sua Lucy; non c’è neppure il tempo per lasciarsi andare ad una lacrima romantica, il caleidoscopio sonoro e visivo di Lucy in The Sky With Diamonds invade lo schermo, chiude e perpetua il sogno. |
ezio leoni - La Difesa del Popolo 2 dicembre 2007 |
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"la musica è l'unica cosa che ha senso ormai, se la ascolti ad alto volume tiene a bada i demoni" (Jo Jo)
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