Il
maggiore interesse per la rievocazione storica del Risorgimento si
riscontra nel periodo delle origini. Il cinema, che nasce come
“finestra sul mondo”, ha cominciato a raccontare e documentare
vicende legate al Risorgimento fin dai suoi albori, quando, non a
caso, erano ancora vive persone che avevano vissuto la nascita
dello Stato unitario, quando cioè la materia era ancora viva e
incandescente.
La presa di Roma di Filoteo
Albertini, film di impostazione fortemente anticlericale, venne
girato nel
1905 e
presentato proprio a Porta Pia in occasione dei 35 anni di Roma
Capitale, le sue immagini dei bersaglieri che varcano la breccia
sono ancora oggi usate come materiale di repertorio per rievocare
l’evento. In quegli anni anche a teatro riscuotevano molto
successo drammi storici, come Carlo Alberto, Giovane
Italia, Il tessitore, il che contribuì allo sviluppo
del filone storico anche al cinema, ad esempio con la trilogia
garibaldina (Garibaldi,
Anita e
I Mille di Mario Caserini, il più prolifico regista
del Risorgimento ai tempi del muto).
All’affermazione del genere contribuì negli anni successivi, oltre
al favore del pubblico, l’aggancio alla propaganda interventista e
al clima antiaustriaco, che porteranno l’Italia a schierarsi al
fianco di Francia e Gran Bretagna nella prima guerra mondiale.
Film
come O Roma o morte,
I Carbonari,
Silvio Pellico, Il martire dello
Spielberg e Brescia, leonessa
d’Italia puntavano a colpire direttamente l’immaginario
collettivo attraverso l’esaltazione dell’eroismo, in funzione
antiaustriaca, come del resto facevano romanzi come
Romanticismo di Gerolamo
Rovetta e Il dottor Antonio di
Giovanni Ruffini, che troveranno anche la trasposizione
cinematografica, il primo diretto da Clemente Fracassi con Amedeo
Nazzari e il secondo da Enrico Guazzoni.
Anche negli anni Venti, nonostante la crisi economica di cui anche
il cinema italiano risentiva, numerose furono le pellicole sul
Risorgimento: La cavalcata ardente
di Carmine Gallone (1915),
I martiri d’Italia di Domenico
Gaido, Anita di Aldo De
Benedetti.
Il Fascismo, abbandonata la connotazione rivoluzionaria e
anticlericale e presentandosi come depositario dell’amor patrio,
adottò il Risorgimento come collante di una pacificazione interna,
con
l’avvallo
del filosofo Giovanni Gentile e dello storico Gioacchino Volpe.
Dopo
il 1934, quando furono inaugurati i nuovi studi
della Cines attrezzati per il sonoro e venne emanata una legge
sugli aiuti statali alla cinematografia, fiorì una fitta
produzione di opere sul tema, alla cui testa si pone
1860 di Alessandro Blasetti,
che, non nascondendo la sua adesione al fascismo, si proponeva di
evidenziare la continuità tra gli ideali risorgimentali e la
“rivoluzione” fascista, creando un parallelo tra le gesta di
Garibaldi e quelle di Mussolini ( le camicie rosse nel bianco/nero
erano nere!). Nonostante l’intento celebrativo il film presenta
però anche un aspetto interessante nella rilettura del momento
storico dal punto di vista
della gente comune.
Altra componente presente in questa fase è quella della nostalgia.
Un garibaldino al convento (1942) di Vittorio De
Sica opera una sorta di sdrammatizzazione del contesto
risorgimentale, e Piccolo mondo antico
(1941) di Mario Soldati pone l’accento, anche se in secondo piano
rispetto alle vicende dei due protagonisti, sulle delusioni
seguite alla conquistata unità, rispetto agli ideali più
progressisti. A questa fase appartengono anche
Giacomo l’idealista di Alberto
Lattuada, Teresa Confalonieri
di Guido Brignone, Mater dolorosa
di Giacomo Gentilomo.
Due
film del
1952
La pattuglia sperduta di Piero
Nelli e Il brigante di Tacca del Lupo
di Pietro Germi segnano una svolta, l’uno, abbandonando il motivo
apologetico, celebrativo in favore del dramma psicologico e
individuale (racconta la storia di un povero soldato abbandonato e
sperduto sul campo di battaglia di Novara) e l’altro, affrontando
un aspetto fino allora trascurato e poco conosciuto, quello del
brigantaggio, diffusosi subito dopo l’unità nazionale.
Una visione antieroica del Risorgimento, di stampo gramsciano
inizia con Senso (1954) e
Il Gattopardo (1963) di
Luchino Visconti e con Viva l’Italia
e Vanina Vanini, entrambi del
1961 di Roberto Rossellini. Visconti, facendo propria
l’interpretazione gramsciana secondo la quale il Risorgimento è
stato una “rivoluzione senza rivoluzione”, perché guidata
esclusivamente dalle forze borghesi moderate senza l’appoggio
delle classi popolari, si discosta da una rappresentazione eroica
e mitica. Rossellini inaugura il suo periodo artistico dedicato
alla narrazione della Storia secondo una prospettiva didattica con
Viva l’Italia,
che dell’epopea garibaldina offre una lettura demitizzata, che
dovrebbe restituire una dimensione eroica ma umana al personaggio
di Garibaldi (interpretato da Renzo Ricci). Alla sceneggiatura del
film contribuirono cattolici come Diego Fabbri e Antonio Petrucci
e comunisti come Antonello Trombadori e Sergio Amidei, per cui
venne definito film del “compromesso storico”.
Dagli
anni Sessanta-Settanta
prevale la tendenza a demitizzare il momento storico, ponendo
l’accento sui suoi lati oscuri, sui suoi oppositori, sulle attese
deluse e le speranze tradite. In Li
chiamarono briganti! di Pasquale Squitieri (e poi anche
in O’ Re di Luigi Magni, 1989)
si racconta, come nel film di Germi, il fenomeno del brigantaggio,
visto quale autentica guerra civile che rappresentò la
“resistenza” borbonica; Quanto è bello lu
murire acciso (1976) di Ennio Lorenzini dà alla fallita
spedizione di Pisacane una lettura in chiave politica di condanna
degli astratti furori rivoluzionari,
Bronte (1972) di Florestano Vancini
ricostruisce una
pagina oscura del Risorgimento: la dura repressione attuata da
Nino Bixio nei confronti di un’insurrezione popolare nel Catanese
poco prima dell’arrivo di Garibaldi.
Nell’anno del Signore (1969)
In nome del Papa Re (1977) e
In nome del popolo sovrano (1990) di Luigi Magni unendo
la ricostruzione storica ai toni della commedia, offrono una
rappresentazione sarcastica delle vicende legate alla Roma dei
Papi. Sempre negli anni Settanta vengono prodotti
Le cinque giornate (1973) di
Dario Argento e Allonsanfan
(1974) di Paolo e Vittorio Taviani. Il primo rilegge in senso
antieroico una delle pagine più famose del Risorgimento, adottando
il punto di vista della gente comune, il secondo focalizza
l’attenzione sugli anni della crisi: l’epoca della restaurazione,
della Massoneria, dei difficili rapporti tra l’avanguardia
rivoluzionaria e le masse contadine.
Dagli
anni Ottanta
in poi sul Risorgimento sembra essere calato il silenzio, a parte
un film d’animazione L’eroe dei due mondi
commissionato a Guido Manuli da Istituto Luce e RAI 2, che
ricostruisce in chiave propedeutica e didattica le fasi della vita
di Garibaldi, che era stato scelto come modello ideologico e
comportamentale da imitare dall’allora al governo Partito
Socialista di Craxi.
L’unico a ritornare sul tema nel
2007 è stato
Roberto Faenza con la sua trasposizione cinematografica del
romanzo I vicerè di Federico
De Roberto, che offre un affresco della nobiltà siciliana nel
difficoltoso passaggio dal regime borbonico alla nuova realtà
sociopolitica dell’Italia unita. Infine una ricostruzione storica
il più rigorosa possibile, lontana da strumentalizzazioni
celebrative e da revisionismi di ogni tipo, ma con un occhio
attento ai legami col presente, ce la offre Mario Martone con
Noi credevamo
(2010), ispirato al romanzo omonimo di Anna Banti, film nel quale,
attraverso le storie di tre giovani, che vivono in modo diverso le
vicende risorgimentali, l’autore racconta i drammi e i sacrifici
costati a molte persone per il difficile processo di
riunificazione dell’Italia, “non escludendo – per usare le
sue parole – le storture, le radici anche “malate” da cui poi è
cresciuta una pianta formidabile ma con tanti problemi come il
nostro Paese.”
Se dunque i film che raccontano la nascita dell’unità d’Italia non
sono così numerosi e molto spesso narrano la storia su misura dei
Savoia prima e poi del fascismo e poi ancora dell’Italia nata
dalla Resistenza, con una retorica centrata solo su un pezzo delle
nostre vicende, tuttavia da essi emergono una serie di dati
inconfutabili, che ci parlano del sacrificio di molti giovani, che
credevano veramente negli ideali di unificazione per cui
lottavano, della solidarietà, e anche delle differenze che
attraversavano il Paese, così come ci parlano delle difficoltà,
degli errori, delle pagine che meno ci onorano, dei problemi
ancora irrisolti. Il cinema è fatto di luci e di ombre, così come
la nostra storia è fatta di luci e di ombre, di uomini diversi e
di Italie diverse, ma, per usare le parole di un teorico
dell’unità Antonio Rosmini: “L’unità
nella varietà è la definizione della bellezza”. |