Roman
Polanski
, nelle interviste, prende le distanze dal personaggio maschile e
si dichiara estraneo alle suggestioni sadomasochiste mettendo molto
l'accento sul divertimento che gli ha procurato l'avventura e sul tono
ironico che ha cercato nel film. Sta di fatto che l'attore (e regista)
Mathieu Amalric, cui è affidato il ruolo del regista teatrale in
Venere in pelliccia,
gli somiglia in maniera evidente. D'altra parte però, sempre intervistato,
Polanski riconosce anche che nel rapporto tra regista e interprete c'è,
per definizione, una componente sadomasochista: «il mio lavoro mi
posiziona più vicino al personaggio del regista, ovviamente». (...) II
regista polacco ha adattato la pièce omonima di David Ives che è una
rivisitazione del romanzo del 1870 di Leopold von Sacher-Masoch. Dove,
facendo largamente eco alla propria autobiografia, l'autore immaginava che
un uomo, Severin, stipuli un contratto con una signora, Wanda von Dunajev,
nella quale egli vede una dea e che anzi identifica con Venere, dal quale
è previsto che la loro relazione diventi quella tra una padrona e il suo
servo (con un nuovo nome: Gregor). (...) Come sappiamo le variazioni
intorno all'archetipo sono state infinite. Nel cinema: da L'angelo azzurro
a Viale del tramonto. Polanski, non nuovo ad avventure claustrofobiche, di
teatro trasportato nel cinema, a pochi o pochissimi personaggi (da
Cul de
sac dove l'uomo viene come qui umiliato e femminilizzato a
Rosemary's
Baby, da Luna di fiele a
La morte e la fanciulla, fino al più recente e
magistrale Carnage da Yasmina Reza) e sempre con risultati sorprendenti e
assolutamente all'altezza della sua fama geniale, crea qui uno dei suoi
più riusciti incipit. Con un piano sequenza che penetra in un teatro
malmesso e deserto, che sarà il luogo unico dell'azione. (...) Non è del
tutto convincente l'intonazione non troppo spiritosamente femminista e
'giustiziera' che Polanski ha voluto dare all'epilogo. Incanta la
perfezione d'intesa tra i due interpreti, ma per Emmanuelle Seigner il
ruolo, magnificamente sostenuto, è stato un vero regalo d'amore. Quello di
Polanski è forse il caso più esemplare di paladino della generazione
ribelle che, senza perdere nulla dell'originaria vena trasgressiva, occupa
oggi il centro della scena come uno dei più grandi cineasti viventi.
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...Evitando
prediche e banalità sulla guerra tra i sessi - quello 'femminista' è solo
il lato più esteriore del film - per darci una riflessione vertiginosa e
insieme esilarante sul mestiere dell'attore; sui doppi e tripli fondi
nascosti in ogni vera interpretazione (a complicare il gioco di specchi,
Amalric è quasi un sosia di Polanski giovane); sull'intreccio tra potere e
seduzione che sottende ogni lavoro di messinscena (non si tratta solo di
donna contro uomo, ma di attrice contro regista). Suprema ironia:
contrariamente a quanto avrebbe fatto il 99 per cento dei registi di oggi,
per riprendere questo duello che potrebbe anche essere un sogno, dominato
regalmente da sua moglie Emmanuelle Seigner, Polanski ha usato una sola
macchina da presa, non due o tre per poi scegliere al montaggio. E non è
un dettaglio tecnico. E il segno di una supremazia che è il soggetto
stesso di questo film irresistibile. Solo se visto in originale, vista la
banalizzazione inferta dal doppiaggio italiano.
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Si
potrebbe parlare e scrivere di Roman Polanski per ore, tanto è essenziale,
preciso e millimetrico il suo cinema. Più passa il tempo maggiore è la
forza dei suoi dispositivi a orologeria, macchine infinitamente accurate.
Questa ingegnosità, l'ingegneria cinematografica di un autore che tende
all'essenziale senza mai essere perfetto, riguarda anche e soprattutto gli
elementi della messa in scena che fatalmente coincidono con l'essenza
stessa dei principi narrativi: unità di luogo e di tempo, stretta
dialettica di personaggi. (...) Questa rincorsa all'essenzialità, questo
spogliarsi di tutti gli orpelli inutili al fine di mostrare la precisa
natura dei rapporti tra le classi sociali e tra i sessi, tutti rapporti di
potere, è arrivata con Venere in
pelliccia ad una efficacia che si
trasforma, del tutto consapevolmente, in parodia, sottilmente sottesa ad
ogni gesto, ad ogni parola detta e recitata, ad ogni sguardo lanciato. Non
riusciamo a immaginare un passo più in là nella definizione di questo
dispositivo, a meno che Polanski non voglia arrivare alla forma
monologante, come una confessione definitiva, e fors'anche farsesca, che
possa coincidere una volta di più e una volta per tutte con il sé che
attraversa ogni sua opera. (...)
Venere in pelliccia,
dunque, è un Polanski allo stato puro, e non interessa se il dispositivo
narrativo così sofisticato, cede in qualche punto, mostrando il limite di
una messa in scena ardita per quanto semplice. Il film inizia con un
«carrello» che avanza nel mezzo di un viale alberato in quel di Parigi
mentre il cielo si fa scuro annunciando un temporale già compreso dalla
musica di Alexandre Desplat (uno dei maggiori e più importanti autori di
musica per film dei nostri giorni) che introduce il tema, l'ambiente e
l'atmosfera. Poco dopo questo carrello polanskiano entra in un teatro
sguarnito in un giorno dedicato al casting della «venere in pelliccia». Il
regista è sul palco piegato al telefono, disperato per lo scarsissimo
livello delle pretendenti. Sta per chiudere baracca quando «una di loro»,
sguaiata, fradicia, tatuata, sboccata irrompe nella scena pregando di
poter essere provinata. Inizia il duello, condotto da Polanski con la
maestria di chi tira di fioretto: un passo avanti e due indietro, attacchi
ed esitazioni, schivate e affondi. Un balletto, una sfida, una meraviglia.
La sguaiata pretendente al trono della Venere conquista posizioni e si
cala nel ruolo riuscendo, con un'abilità sospetta che tradisce le sue
origini macchiettistiche, a rovesciare le parti e, sotto l'egida di un
Masoch indispettito dalla modernità, si trasforma da dominata in signora
assoluta. Una magia, un incanto, un esercizio di intelligenza e ironia.
Protagonista assoluta di questa performance è Emmanuelle Seigner, musa e
sposa di Polanski, perfetta e irridente maschera di un masochismo al
contrario che si fa beffe dell'uomo e del regista, vittima delle sue
stesse idiosincrasie. E come sempre quando si vede un film di Roman
Polanski, tutto è normale ma niente lo è. E questa è una sensazione che
pochissimi registi al mondo riescono a trasmettere. Questo stare
perfettamente in bilico tra il verosimile e l'immaginato, come fosse la
traduzione possibile di uno stato mentale. Così quando la Venere sparisce
alla fine del film, chiunque ha diritto di credere che non sia mai apparsa
in carne e ossa, ma fruizione libera di una mente aperta.
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Dopo
i quattro memorabili contendenti di
Carnage,
Polanski fa ancora economia e, sempre ispirato dal teatro che da sempre è
sua linfa vitale, li riduce a due, classici contendenti: un uomo e una
donna, anzi un regista e un'aspirante attrice. Il mondo esterno non esiste
nel film in cui il regista sedimenta e metaforizza il suo da sempre acceso
erotismo: siamo nella platea vuota di un teatro, il regista si appresta ad
uscire, fuori piove, ma una ragazza, un po' cialtrona e anche stracciona,
si fa avanti chiedendo audizione per la parte di Wanda in
Venere in pelliccia
(zibellino tartaro!). (...) Tratto dalla commedia di David Ives, in scena
a Broadway dal 2010, ora edita nei Bur Rizzoli, il film è una bella
boccata di aria chiusa, alla Polanski, gioco al massacro che ricorda i
suoi sadomasochismi non sospetti (Cul de
sac, Luna
di fiele) e cita il finale di Che? la scena in cui la donna nuda sta in
piedi soverchiando l'uomo. Nulla di volgare, siamo nella zona protetta dal
genio registico e dal gusto claustrofobico degli ambienti e dei
sentimenti: in 90', il regista confeziona un thriller d'amore e odio in
cui le posizioni si ribaltano di continuo. Emmanuelle Seigner brava nella
metamorfosi di vecchio rancore, ma la scoperta è Mathieu Amalric che si
trasforma in un Polanski giovane, facendo in modo che il sudoku degli
affetti si faccia più inestricabile con una terza presenza invisibile.
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