Un
Vendicatore mascherato semina il terrore nella Londra di un futuro da
incubo, un futuro così vicino che sembra il presente.
Prima, accompagnato
dalle note roboanti di Chaikovskij diffusi nelle vie della capitale da
alcuni altoparlanti, salta in aria l’Old Bailey
sotto gli occhi non si sa
se più atterriti o affascinati della popolazione. Più tardi il
Vendicatore, che si fa chiamare V e si esprime in un linguaggio antiquato
e fiorito, se la prende con un’altro simbolo cittadino, il Big Ben. E alla
fine, dopo aver sequestrato e conquistato alla causa la riluttante (e
sempre più brava) Natalie Portman, fa esplodere l’intero Parlamento in una
scena di impressionante realismo che provocherà, c’è da scommetterlo,
polemiche a non finire...
Ma
V for
Vendetta
(fuori concorso) non è una profezia, non è un esercizio di fantapolitica,
non ha nessun rapporto diretto con gli attentati di Londra o con le Torri
Gemelle perché è solo un poderoso e sorprendente film-fumetto tratto
dall’omonima “graphic novel” di Alan Moore e David Lloyd, che iniziò a
uscire a puntate nel lontano 1981. Certo, il regista James McTeague spera
«che farà discutere e che non venga preso solo come un film del sabato
sera da guardare mangiando pop corn, tanto più che il film è esattamente
come lo volevamo». A realizzarlo dovevano essere infatti i fratelli
Wachowski già prima di
Matrix
(e dell’11 settembre).
Alla fine invece figurano “solo” come produttori (con una nuova società
battezzata Anarchos), ma
V for
Vendetta
porta impresso
il loro marchio su ogni fotogramma. Massimo impatto spettacolare, ma anche
estrema attenzione alle idee. Cura visiva senza pari, e tesi paradossali
quanto ben argomentate. Naturalmente nei limiti del cinema d’azione.
Se in
Matrix
era il mondo intero a essere una colossale montatura tecnologica, qui
siamo dalle parti del
1984
di Orwell, con un cancelliere-dittatore (un inquietante John Hurt) che
governa a colpi di manipolazioni televisive. Ma anche di attentati
batteriologici,
droghe legalizzate ed esperimenti sui ceti più sfortunati.
Mentre V (Hugo Weaving, eternamente coperto dalla maschera beffarda del
ribelle), scatena la rivolta prima occupando il palazzo della tv per
trasmettere un messaggio agli inglesi; quindi diffondendo come un virus le
sue maschere fra la popolazione, in modo che riconoscerlo sia impossibile
e che la rivolta dilaghi. Come dice il personaggio in sottofinale infatti,
«Sotto questa maschera non c’è solo carne. Sotto questa maschera c’è
un’idea. E le idee sono a prova di proiettile».
Ispirato al personaggio storico del cattolico Guy Fawkes, che nel 1605
tentò di far saltare in aria la House of Lords ma fu
imprigionato e
torturato, l’ineffabile V, diciamolo, è uno dei personaggi più complessi
mai visti in un film-fumetto. Altro che Batman, Spider-Man e le loro risibili nevrosi.
Questo ribelle senza volto né morale vive in un covo un po’ arca e un po’
museo, zeppo di libri, quadri, sculture, oggetti d’arte e di modernariato
fra cui si riconoscono le tele di Holbein ma anche il manifesto di
Furia
umana , il grande gangster-film con James Cagney («li ho presi al
Ministero per i Materiali Riprovevoli»). Vede e rivede senza sosta Il
conte di Montecristo con Robert Donat. Uccide solo i
membri
del
governo e i loro sgherri. E se non fosse per
un lungo combattimento all’arma bianca gonfio dei più vieti cliché,
sarebbe anche l’eroe di un film molto elegante per il suo genere.
Anche perché McTeague e i suoi collaboratori (foto, scene, costumi sono di
prim’ordine) ci sanno fare. E se le immancabili scene d’azione sono quasi
sempre molto più inventive del consueto, l’alternanza di toni gravi e
buffoneschi, orridi e satirici, è una vera sorpresa. Basti per tutti lo
show anti-Cancelliere che il bravissimo Stephen Fry, presentatore tv,
manda temerariamente in onda prima di finire manganellato e rapito dai
soliti agenti di regime. Un portento di ironia sul tema della maschera e
del doppio da far morire d’invidia i Monty Python. E scusate se è poco. |