Nel
nuovo potente film di Rubini, i riferimenti sono ottimi e abbondanti,
letterari e antropologici. I Karamazov, certo, ma anche
Rocco, quello di Visconti, con i
fratelli: se non fosse partito per Milano, sarebbe successo quello che ora
accade in questo rusticano melodramma. Quattro fratelli in lotta per la
proprietà, nelle ancestrali radici del profondissimo, magico Sud in cui
resta irretito fuori tempo massimo il prof. di filosofia Bentivoglio che
con finezza e cinismo dipana un dramma di famiglia che muta a vista in
thriller quando il laido usuraio è ucciso. L'autore ci dà dentro: storia
densa, esasperata, fin troppo ricca di grida, denti, sopracciglia, ugole,
gengive (vedi Venturiello). La scena clou è la processione, Briguglia (il
buono, l'Idiota) e Solfrizzi, in corsa azzurra politica, sono bravissimi. |
Popolo
italiano, sull’attenti: c’è un nuovo. bravissimo regista in città. A dire
il vero è attivo da oltre 15 anni. è famoso soprattutto come attore e
aveva già diretto 7 film: ma l’ottavo, che esce oggi e si intitola
La
terra,
è un salto di qualità che colloca Sergio Rubini
(di lui stiamo parlando)
nel ristretto novero dei cineasti italiani che contano. Perché mescola i
generi con sapienza, rende grottesco il glorioso tessuto narrativo della
commedia, dice cose violente e profonde sull’architrave della nostra
società: la famiglia, vera protagonista del film. Luigi Di Santo (Fabrizio Bentivoglio) è un professore di filosofia. Vive a Milano, ma è di origini
pugliesi, e m Puglia deve tornare per l’improvvisa morte del padre. C’è di
mezzo un’eredità, una terra sulla quale vive il fratellastro Aldo (Massimo
Venturiello) e che l’altro fratello Michele (Emilio Solfrizzi), «sceso» in
politica, vorrebbe vendere. Michele è pieno di debiti e odia visceralmente
il «bastardo» Aldo, che ricambia di tutto cuore e si rifiuta di vendere il
lascito paterno. C’è anche un quarto fratello, Mario (Paolo Briguglia), un
adolescente dalla sensibilità esasperata che lavora come volontario con
gli handicappati. Quando Luigi arriva in paese, uno di questi sventurati
al quale Mario era legatissimo è appena morto, caduto dalle scale. Il
poveretto si è ucciso dopo i maltrattamenti subiti dallo strozzino Tonino
(lo stesso Rubini), con il quale Michele è pesantemente indebitato. Tonino
ha una moglie crudele e orrenda, con la quale condivide un passato di
crimini inconfessabili, e un’amante russa che se la spessa con Aldo e
vorrebbe mollarlo. Come avete capito, tutti i quattro fratelli avrebbero
buoni motivi per augurare a Tonino le più atroci disgrazie: e quando
l’usurario viene ucciso a colpi di doppietta durante una processione, i Di
Santo sono i primi sospetti...
La terra
è, in prima battuta, la storia dello spaventoso verminaio nel quale il
«milanese» Luigi si trova invischiato nel borgo
natìo. È anche, quindi, il
suo progressivo ritorno alle radici: più Luigi rimane sul posto, più i
valori arcaici del Sud gli succhiano letteralmente il sangue (ed è
mirabile la metamorfosi di Fabrizio Bentivoglio, che passa quasi
impercettibilmente dall’azzimato accento milanese della prima parte
all’aspro pugliese della seconda). Alla fine, nel nome di una presunta
giustizia che naturalmente non coincide con la legge degli uomini e dello
Stato, trionfa il senso antico della famiglia: ma quella dei Di Santo è
una famiglia terribile, che nasconde violenze private e pubbliche. nel
passato come nel presente e, c’è da giurarlo, nel futuro.
Rubini e Bentivoglio hanno confessalo di avere, entrambi, una passione: i
fratelli Karamazov di Dostoevskij. Il paragone funziona: Aldo, sensuale e
bastardo, è una sintesi del gaudente Dmitrij e del parricida Smerdjakov,
mentre il puro di cuore Mario corrisponde al «santo» Aljoscia e il
professore Luigi somiglia molto al «filosofo» Ivan, quello che discorre
col demonio. Viene in mente, a questo punto, un’altra storia di fratelli
del Sud, raccontata da Luchino Visconti tanti anni fa: anche
Rocco e i suoi fratelli
permetterebbe il giochino delle corrispondenze (Aldo/Simone, Mario/Rocco,
Luigi/Vincenzo) e anche quel vecchio capolavoro era, in filigrana, una
riscrittura dell’Idiota. Curioso: 45
anni fa come oggi, Dostoevskij funziona sempre, è un ottima cartina di
tornasole per analizzare la società italiana, la sua finta modernità, la
sua omertà. il maschilismo rampante che la condiziona. E dalle suddette
equazioni resta fuori il personaggio di Michele: perché è il più moderno,
quello che per fare politica si venderebbe qualunque cosa, e nemmeno
Dostoevskij e Visconti sarebbero arrivati a immaginarlo...
La terra
è una commedia che si trasforma in tragedia senza fare sconti a nessuno.
Rubini gira il film come uno spaghetti-western, isolando i personaggi su
un paesaggio pugliese che sembra il (finto) Messico di Sergio Leone. Per
sé, ritaglia un ruolo talmente laido da far capire subito, e senza
equivoci, quale sia il suo punto di vista morale sulla vicenda. Grande
regia, grandi interpretazioni. Grande film.
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...La terra non
manca di momenti prevedibili: la contemplazione della bellezza fisica del
Paese, delle acque trasparenti; la processione del Venerdì Santo con i
suoi costumi antichi (ed è proprio durante il corteo che, come in un'opera
lirica, esplodono colpi di pistola e grida); la masseria in abbandono,
l'urlo «bastardo» che durante una lite riemerge nell'educato intellettuale
contro il fratellastro; il mix di tradizione e attualità; la soluzione
quando il professore assume il ruolo di capofamiglia disonesto. Pare
strano oggi, in un mondo di esuli, emigranti e profughi, ritenere che la
terra natale, le origini geografiche e culturali, abbiano ancora
un'importanza decisiva, che ad esse inevitabilmente si debba una parte
della personalità, magari quella parte che si è cercato con tutte le forze
di cancellare. Può essere vero, oppure può essere un luogo comune
obsoleto.
La
terra è in ogni
caso un film sincero, ben fatto anche se a volte ripetitivo o disordinato,
al quale è totalmente estranea la meccanicità inerte di tanto cinema
contemporaneo, e con attori ammirevoli. |
Rubini torna
alla regia. Dopo la scialba prova de L’amore ritorna l’attore regista
pugliese questa volta fa un omaggio alla sua terra, alla violenta e
pasionaria antropologia di un sud pugliese che si dipana tra piantagioni
di ulivo ed un rapporto tra fratelli che –dopo tanti anni- sembra essere
arrivato ad un punto di svolta. Le intenzioni sono buone e per la prima
metà la costruzione para giallistica funziona anche, ma Fabrizio
Bentivoglio è imbrigliato nell’interpretazione del solito professore già
visto ne
La scuola
e la sua espressione monocorde non regge l’ora e 52 minuti di film.
Peccato: ci potevano essere diverse occasioni per lasciare spazio al suo
istrionismo che invece resta incollato alla caratterizzazione (godibile)
del personaggio secondario che Rubini ritaglia per se. Insomma, la solita
tiritera italiana che non affonda mai il colpo né alla critica sociale né
ad un intimismo che dopo il grottesco della prima parte, sfocia in un
ingiustificato e –tutto sommato- oscurantista melodramma. |