Non
c'è dubbio,
Rubini
lo deve sapere e non può meravigliarsi se viene notato
e diventa materia giornalistica e critica: ha fatto un film sovresposto,
spudorato nell'investimento di sé. Dove si è messo in scena, scopertamente
autobiografico. Un attore (l'alter ego è Fabrizio Bentivoglio) stufo o
almeno insoddisfatto di fare l'attore per altri e impaziente di esprimersi
in proprio. Che ha avuto una moglie attrice (Margherita Buy, realmente ex
moglie di Rubini e le coincidenze non si fermano qui) e una relazione con
un'altra attrice (nel film Giovanna Mezzogiorno ma, tocca dirlo, "fa" Asia
Argento). Ha ripudiato le sue origini provinciali e meridionali per
mimetizzarsi con il mondo romano dello spettacolo, ha sofferto la malattia
della dipendenza dai consensi e dai suoi flussi che vanno e vengono
(coincidenza: la stessa materia sta nel film appena girato da Giuseppe
Piccioni). Il film racconta una crisi catartica che, un po' inventando e
un po' prendendo dal percorso umano e artistico dell'autore, chiama a
raccolta la coralità di coloro che vi hanno preso parte, genitori
compresi: quel padre vagamente felliniano - spudorato anche questo
richiamo al maestro dei maestri - è il vero papà di Sergio. Luca Florio
sta girando un film da protagonista e si ammala apparentemente in modo
grave. Non vuole saperne del ricovero e delle cure, da principio, teme di
perdere la battuta e l'attivismo della piena maturità. Ma piano piano le
cose cambiano. Molto c'entra, nel viavai intorno al letto del malato, la
presenza dapprima imbarazzante ma invece preziosa del compaesano amico
d'infanzia Giacomo che fa con umiltà e buonsenso il medico (Rubini lo
interpreta collocandosi in un ruolo che lo rende osservatore di se
stesso). Il quale gli salva la vita facendogli la diagnosi giusta e
quindi, in via metaforica, rappresenta la fondamentale mano tesa che aiuta
Luca (Sergio) a uscire da una crisi che è soprattutto esistenziale. A
rintracciare i legami interrotti e vitali con le origini (tema sul quale
Rubini insiste, con la complicità di Domenico Starnone nella scrittura, da
Tutto l'amore che c'è) e con quanto
esse evocano di irrazionale, magico, sensitivo. Se ci fosse un'ombra di
equivoco: questo film ci è piaciuto molto. E' denso e contagiosamente
autentico proprio perché straripante, senza freni. E benissimo ha fatto il
regista a contenere la sottolineatura del "cinema nel cinema", avrebbe
mortificato la generosità di emozioni: è nelle cose che questo sia il
racconto di come Rubini ha risolto i propri sospesi raccontandoli, senza
spiegarlo. Partecipazione - vero cammeo - di Michele Placido in camice
bianco da applauso a scena aperta.
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«L'amore
è come un giorno/abbagliato dal sole/se ne va, se ne va» canta Ornella
Vanoni nel settimo film di Sergio Rubini. La storia di ognuno di noi -
come l'amore delle canzoni - va via e torna, abbagliata dalla luce del
sole, bagnata dalla pioggia, stordita e fraintesa nei ricordi. Nella
storia di Luca (un impeccabile Fabrizio Bentivoglio con gli occhi e il
sorriso stanchi) si riflette opaca, scontornata, imprecisa,
l'autobiografia emotiva del regista, lo spostamento psicanalitico di una
identità codificata dalle ragioni, dai sentimenti e dai punti di vista
degli altri. Di tutti quelli che, oggi, si aggirano intorno alletto della
clinica in cui il protagonista viene ricoverato per un malore: la ex
moglie (Buy), la produttrice (Melato), l'amico d'infanzia (lo stesso
Rubini), una strampalata e infantile nuova compagna (Mezzogiorno), il
padre (Alberto Rubini, vero padre del regista). Di tutte quelle presente,
mai conosciute e che appartengono a un tempo in cui Luca non c'era: il
fantasma di una ragazzina, cugina della madre del protagonista morta tanti
anni prima, le radici, il dialetto, i suoni della terra d'origine. Tra
intuizioni visive, momenti commoventi, canzonette, incisi buffi, Rubini
amorevolmente assistito da una compagine notevolissima di attori, parla di
sé, del cinema, dell'appartenersi e dell'appartenere a qualcun altro, del
denudarsi, del ritrovarsi, del mestiere assurdo e crudele dell'attore. Un
mormorare di sé in terza persona per essere più spudorato.
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