Fascinazione
e straniamento. La visione del primo "capitolo" de
Il Signore degli Anelli
lascia esterrefatti e attoniti, inebriati dalla magnificenza di un
mondo incantato che prende corpo con assoluta padronanza cinematografica,
spiazzati di fronte ad una saga già "meravigliosa" nella sua maestosità
letteraria (il testo di Tolkien, edito a metà degli anni '50, è di
oltre mille pagine, suddivise in tre parti, La Compagnia dell'Anello,
Le due Torri, Il ritorno del Re) e
ora, rinverdita per lo schermo da una trasposizione fedele nello spirito
ma inesorabilmente ridotta rispetto alla complessità di situazioni
e personaggi originari (i puristi lamentano la scomparsa di un personaggio
come Tom Bombadil!) e quindi ostica per un approccio di compiuta e
"conscia" partecipazione. L'impasse critica (ma non emotiva!) nasce
proprio dal percepire questa inadeguatezza d'analisi, dal non possedere
in toto la cognizione dello splendido evolversi dell'universo tolkeniano,
di doversi affidare alla sola esperienza cinematografica senza l'imprinting
d'approfondimento che è appannaggio dello stuolo di fan che conoscono
a menadito tutte l'opera dell'umanista di Oxford, che hanno riaffrontato
con dovizia l'intero tomo, quale "riscaldamento" per l'avventura schermica.
E, in effetti, senza un'adeguata lettura propedeutica, l'abbandonarsi
alla visione lascia quasi interdetti nella sua ubriacante frenesia
narrativa e figurativa.
Eppure per apprezzare il mastodontico lavoro di Peter Jackson (tre
anni per la sceneggiatura, quindici mesi per le riprese nelle
incontaminate location della Nuova Zelanda, un budget di 300 milioni
di dollari per oltre 1.200.000 metri di pellicola che hanno coperto
già tutta la narrazione del libro, anche se l'edizione prevede tre
film distinti [
],
scanditi nell'arco di altrettante stagioni cinematografiche)
occorre proprio lasciarsi andare al fascino delle immagini; non solo
inchinarsi di fronte all'effervescenza favolistica di Tolkien (ormai
assodata, universalmente apprezzata, persino inopinatamente etichettata,
talvolta, secondo effimeri umori ideologici), ma liberare l'emozione
dello sguardo di fronte a una costruzione immaginifica che costituisce
di per sé evento narrativo, pathos d'azione, lievità di suggestioni
fiabesche, tensione incombente di paure ancestrali.
Il prologo (un po' ridondante in rappresentazione esplicativa) introduce subito nell'essenza della storia: anelli magici forgiati per governare il mondo, il potere del male che cova sotto l'apparente prosperità della Terra di Mezzo, un melting-pot di eroi che cerca di ricondurre il destino sulla via del bene...
Della Compagnia dell'Anello (che ha il compito improbo di distruggere
il ventesimo anello, il più pericoloso) fanno parte lo stregone
Gandalf (Ian McKellen), il nano
Gimli, gli umani
Aragorn (Viggo Mortensen) e
Boromir,
l'elfo Legolas
e gli hobbit Sam,
Pipino,
Merry
e Frodo
(Elijah Wood) che ha ricevuto l'imbarazzante eredità dell'anello dallo
zio Bilbo Baggins
(Jan Holm) e che è il vero protagonista della magica impresa (per sapere
come Bilbo ne fosse venuto in possesso bisognerebbe andare a consultare
Lo Hobbit: la bibliografia di Tolkien è un intarsio sorprendente
che travalica la stessa trilogia).
Capolavoro assoluto della fantasy letteraria,
Il Signore degli Anelli
si erge ora a summa filmica di avventure gotico-fiabesche in paesaggi
folgoranti, di espressionismo new-age (la radiosa presenza della regina
di Lothlòrien Garadriel-Cate
Blanchett), di ricercatezza cromatica (la fotografia caratterizza le
ambientazioni accentuando le sfumature del colore), di oscura iniziazione
etica (l'eterno, sofferto scontro bene-male, l'ineluttabile parentesi
romantica, l'incombenza della distruzione dell'eden, la forza
invitta della lealtà e dell'amicizia), di lussureggiante esibizionismo
cinematografico: la
regia rimanda alle abbaglianti invenzioni scenografiche di Harryhausen
(le
gigantesche statue
dei Re degli uomini, la battaglia con gli orchetti e la lotta col troll
nelle
miniere di Moria), agli spazi
aperti del western (l'inebriante
fuga a cavallo che vede
protagonista la principessa degli Elfi Arwen-Liv
Tyler, l'escursione
in canoa lungo il fiume fiume
Anduin), alle digrignanti figure dell'horror (gli orchi Uruk-hai forgiati
nelle viscere della terra dallo stregone Saruman-Christopher
Lee, i lugubri Cavalieri Neri al servizio del malvagio
Sauron).
Occorreva
la tecnica potente del digitale per poter intraprendere un viaggio fantastico
così ardito e suggestivo (oltre il 90% delle immagini modificate
al
computer, il lavoro di post-produzione organizzato via internet), ma
ancora una volta la grandezza dl cinema a tutto tondo sta nell'invisibilità
del trucco e nella sconvolgente visibilità degli effetti, nella creazione
di un immaginario comune, fantastico e intrigante: c'è chi potrà non
entrare in piena sintonia col film (e col genere fantasy), ma solo qualche
spettatore ipercritico non saprà gustarne la magnificenza visionaria
e l'avvincente spirito d'evasione, fuori dal tempo e adatto a tutte
le età. E lo smacco della struttura a sequel (che senso d'impotenza
dover attendere il 2004 per arrivare alla fine!) rende ancor più seducente
il dilatarsi di un'avventura restia a concludersi, insofferente ad adeguarsi
agli standard di mediocrità diegetica di tanta fiction di cassetta.
Come il suo stregone
Gandalf , Jackson sa avvincere lo spettatore
in un'esperienza unica e irripetibile, come
gli hobbit della Contea anche noi assistiamo estasiati, nell'oscurità
magica della sala, ai folgoranti fuochi d'artificio di questo esplosivo
Lord of the Rings.
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