Quando un
autore riprende e parafrasa a distanza di decenni uno dei suoi film più
riusciti, o è in agguato la delusione o arriva il capolavoro. Dipende da
come l'autore si rapporta col passare del tempo: a ottant'anni suonati,
Robert
Altman
non potrebbe essere più giovane né più lucido; solo, cova
una dose maggiore di amarezza.
Radio America è un ritorno al grande
Nashville, cui lo legano tanti
elementi: dalla musica folk e country all'inimitabile capacità di
coordinare un microcosmo di personaggi (e di star del cinema), dallo
scatenarsi dei conflitti latenti al sottotesto politico. Questa volta,
però, gli eventi si svolgono in unità di tempo; durante una sola puntata
della trasmissione radiofonica "A Prairie Home Companion", che esiste
realmente da oltre trent'anni ed è seguita da 35 milioni di famiglie
americane. La serata consiste in un susseguirsi di canzoni in diretta,
intervallate da siparietti comici e falsi spot pubblicitari.
Tra i "characters" emergenti due sorelle, Yolanda (Meryl Streep) e Rhonda
(Lily Tomlin) Johnson, la relativa figlia e nipote (Lindsay Lohan), che
debutta al microfono, e il duo di cowboy canterini Dusty e Lefty (Woody
Harrelson e John C. Reilly). Più Garrison Keillor, l'autentico conduttore
del programma, che compare anche come (eccellente) attore nella parte di
se stesso. S'immagina che la puntata sia l'ultima della lunga serie;
perché una compagnia d'affari ha rilevato il teatro, destinato alla
demolizione per far posto ad attività più redditizie.
Neppure l'interessamento di un biondo Angelo della Morte (Virginia Madsen)
in impermeabile, fan del programma, vale a sventare la minaccia; serve
solo ad offrire l'ultimo viaggio ad Axeman (Tommy Lee Jones), l'agente
della compagnia che ha deciso il silenzio-radio. Benché in pieno vigore
creativo, Altman non si nega una pudica nostalgia del passato: un po'
nello stile del
Radio Days
di
Allen,
un po' nel personaggio di Kevin Kline, alias Guy Noir, detective
chandleriano addetto alla sicurezza dello show.
Ma è nel suo sguardo sul presente che si misura il tempo passato da
Nashville: là era il 1975, Altman aveva cinquant'anni ed era pieno di
rabbia, indignazione, ironia; adesso che ne ha ottanta, mette in scena un
film lucido e pieno di humour, eppure coreografato come una festa di morte
(struggente l'episodio del vecchio cantante che muore dietro le quinte).
Uno splendido divertissement macabro profondamente venato di pessimismo,
che sembra cantare la fine di un'epoca ma dietro - a guardarlo più da
vicino - lascia intravedere il declino di un'intera civiltà. |
Se fosse il
miglior film di Altman? Riprendendo
Nashville
il regista guarda alla cultura pop country festeggiando l'ultimo
spettacolo d'uno stravagante cult programma radio. S'aggirano nel teatro
tipi strambi e divertenti, l'America patetica e il folk del Minnesota,
una zombie ben inserita in impermeabile bianco, il busto di Fitzgerald.
Divertente e nostalgico a tempi alterni e perfetti, un cine-ossimoro, il
film ironico e magistrale è una porta girevole in cui entra ed esce aria
di cinema con allegra malinconia. Dal ' 75 a oggi Altman, dopo
America oggi,
è poco apocalittico: qui non si uccide, si muore, la prende con filosofia.
Cast da antologia: l'impagabile canora Streep e la sorellina Tomlin, i
cowboys parolacciari (Reilly e Harrelson), il tutore Kline e tutti; ma è
il climax della regia che fa il capolavoro (anche di montaggio, musica,
fotografia). Non perdetelo. |