L’approccio
cinematografico con L’isola del tesoro (Robert Louis Stevenson, 1883)
vanta oltre una dozzina di trasposizioni, di cui tre ai tempi del muto, varie
serie televisive e alcune produzioni da menzionare per il ruolo di Long John
Silver affidato ad interpreti del calibro di Orson Welles (1972), Anthony Quinn
(1987), Charlton Heston (1990), Tim Curry (1996), Jack Palance (1999).
Quella del 1950 fu una produzione Disney. Con
Il Pianeta del Tesoro
la casa di Burbanks si ripete ora in una splendida versione a cartoni
animati,
anche se il termine è sempre più improprio vista l’evoluzione delle tecnologie
(siamo alla “terza generazione”) che sfruttano il digitale, mantenendo in bidimensione (cartoon classico) i personaggi e strabiliando nel 3D di sfondi,
ambienti e (in questo caso) “vascelli spaziali”. Il termine va virgolettato
perché troppo ci si è abituati a parlare, nelle saghe fantascientifiche, di
astro-navi. Qui l’originalità dell’idea sta nel mescolare il decor settecentesco
di navi e pirati con l’universo futuribile: così i galeoni sfrecciano spinti da
roboanti propulsori mentre le vele solari si gonfiano sfruttando le correnti
galattiche, nello spazio siderale vagano sereni branchi di balene, ma si
aprono
anche fiammeggianti buchi neri, la ciurma antropomorfa sembra uscita da un
saloon di
Guerre stellari, il bieco John Silver è un cyborg e il suo pappagallo
è diventato una minuscola ameba-mutante (Morph), che con il suo simpatico
trasformismo costituisce un tassello narrativo di effervescente vitalità. E se Jim Hawkins è uno scavezzacollo dal look “street” che si
esibisce
in saettanti equilibrismi su un surf a razzi (una sequenza da virtuosistico
brivido!), la mappa è una piccola sfera computerizzata che ricrea
tridimensionalmente la volta dell’universo e uno spicchio di luna si rivela uno
spazio-porto modellato sulla forma del satellite…
Il fascino sorprendente di
Treasure Planet
sta proprio in questo amalgama di novità e tradizione, di un antico racconto
avventuroso e di un impianto figurativo visionario in suadente modernità. Ed è
un piacere conoscere già la storia e rimanere ugualmente avvinti dal ritmo, dal rigenerarsi delle emozioni, dalle finezze dell’adattamento
da fantafuturo. Il prologo con Jim ancora piccino che legge a letto del
leggendario bottino del capitano Flint è un memorabile gioiello di immersione
nel fantastico. Il libro che sfoglia si anima in 3D, il buio della camera di
illumina delle immagini del racconto, vascelli corsari escono dalla pagina in
sfavillante materializzazione…
Quando poi il protagonista, ormai adolescente,
entra in possesso della mappa del tesoro di Flint, scatta anche per noi la
scintilla dell’avventura: la locanda di mamma viene messa a ferro e fuoco, ma
con l’aiuto di uno strampalato scienziato, il dottor Doppler, si può partire
alla ricerca del mitico pianeta. Come in Stevenson sulla “nave” si imbarcano i
pirati (spazionauti!) di
Long John, ma proprio il perfido bucaniere si lascerà
intenerire dalla sofferta iniziazione di Jim (“devi rinunciare a qualcosa quando
rincorri un sogno”) e la loro amicizia cresce in parallelo con i
ricordi-flashback dell’abbandono del padre… All’approdo sull’agognata isola
(pardon, pianeta!) non mancheranno all’appello il naufrago Ben (qui un robot
logorroico che ha perso il chip di memoria), scintillanti dobloni e
catastrofiche
trappole. Il tutto per dare spazio all’estro dell’equipe dell’animazione Disney
(gli autori, Clements e Musker, sono quelli di
Basil l’investigatopo,
La sirenetta,
Aladdin
ed
Hercules),
all’arguzia di Jim, al cementarsi del suo rapporto con John. Per concedere al
pubblico di tutte le età un’esplosione di sopite rivelazioni narrative e nuove
fantacinematografiche sorprese. |