L'ora di religione - Il sorriso di mia madre
Marco Bellocchio - Italia 2002 - 2h 15'


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    Chi ha paura dell’ateo cattivo? Sembra una fiaba mal riuscita la vicenda cinematografica de L’ora di religione in ambito cattolico: bollato con il severo giudizio di inaccettabile (fuorviante!) dalla commissione romana di valutazione film, attaccato dall’Osservatore Romano, il film di film precedente in archivioBellocchiofilm successivo in archivio, presentato con successo a Cannes, ha ricevuto come unico premio proprio quello dell’OCIC (Organismo Internazionale Cattolico)… 
In effetti
L’ora di religione è un’opera contraddittoria nel senso alto del conflitto interiore che angustia il suo protagonista Ernesto (uno bravissimo Sergio Castelletto) e nello sviluppo filmico stesso, in bilico tra l’invettiva rigorosa e il tono farsesco-surreale (con una recitazione, specie della componente femminile, davvero deprimente). E che nel momento topico del racconto venga pronunciata una sonora, doppia bestemmia fa capire come l’azzardo stilistico-spirituale di Bellocchio abbia infastidito non poco gli organi della Conferenza Episcopale Italiana. Il perno del racconto è il processo di beatificazione della madre di Ernesto Picciafuoco che cade come un fulmine a ciel sereno nella vita del protagonista, ateo convinto, già tormentato dall’atteggiamento da prendere nei riguardi dell’ora di religione scolastica per il proprio bambino. La complessità del caso sta nel fatto che la donna sia stata uccisa proprio da uno dei suoi figli (immolata nell’ossessivo tentativo di convincerlo a non bestemmiare), che la beatificazione sia vista dal parentado Picciafuoco come un viatico perbenista di arrivismo sociale, che il ragazzino sia di continuo turbato dalle sollecitazioni religiose scolastiche (cerca in giardino un posto dove essere “libero” dal controllo di Dio), che la maestra di religione che Ernesto si trova di fronte risulti una bellissima donna della quale subito si invaghisce.
Se questo ultima chiave narrativa tende a sfilacciarsi nelle motivazioni (ma il cinema è anche furbizia di messa in scena) e se l’incombente coreografia dei paludati ambienti romani pecca di un fellinismo e di una retorica che noi “provinciali” sentiamo datata, certo è che l’intensità della crisi spirituale di Ernesto, il suo cercare una propria coerenza morale in un clima di mellifluo bigottismo hanno una tempra mirabile, così come sono di esemplare raffinatezza le scenografie (Marco Dentici), il gusto dell’inquadratura (quel Vittoriano incombente visto dall’automobile), la fotografia (Pasquale Mari), i movimenti di macchina: sinuosi, essenziali, efficassimi. Lo spirito è quello caustico di
I pugni i tasca (1965), lo stile è quello di un regista maturo che sa trasmettere, in armoniosa composizione cinematografica, l’incertezza esistenziale di un intellettuale soffocato dal riflusso, e che, nello scandalo blasfemo, osa urlare il dolore e la disperazione di un essere umano “malato di mente” e lacerato nel cuore. 

ezio leoni - La Difesa del Popolo - 2 giugno 2002