Bertolucci,
in conferenza stampa, ha dichiarato che i giovani della sua generazione
(la meglio gioventù?) avevano in più
“la speranza” e che l’utopia che la sostenne partì con la protesta
per l’allontanamento di Henri Langlois dalla Cinémathèque di Parigi
(da cui scaturì il ’68, come narra in The
Dreamers) e si spense dieci anni
dopo con l’assassinio di Aldo Moro.
In una suggestiva sintonia di idealità lacerate,
Marco Bellocchio
rilegge la devastante barbarie degli anni di piombo “regalando” al
delirio violento dei brigatisti e all’asfittica fermezza dei palazzo
l’inesausta forza dell’immaginazione, la sublimazione dell’introspezione
psicanalitica, l’eterno sogno del cinema.
Buongiorno,
notte
(un verso di Emily Dickinson a stigmatizzare il buio che avvolse la
politica italiana) non rinfocola contrapposizioni partitiche, non
insegue la verosimiglianza (Roberto Herlitzka è un Moro attendibile
essenzialmente per intensità interpretativa), concede ben poco a digressioni
non rigorosamente storicizzate (l’invenzione, fruttuosa, del copione
trovato nella borsa di Moro, la grottesca e stonata parentesi della
seduta spiritica). Non esterna nuovi moniti morali (ce n’è forse bisogno?),
ma prova a ridelineare “dall’interno” i dubbi di un agire insano ed
estremo che via via si svuota di ideali e si tormenta nell’incertezza.
Nel riferimento letterario al romanzo Il prigioniero (dell’ex-brigatista
Anna Laura Traghetti) il fulcro del racconto è il
personaggio di Chiara (bravissima Maya Sansa), la “vivandiera”, l’unica
donna nel gruppo dei terroristi, che da dentro vive la tragedia: è
lei la sposa fittizia che abita ufficialmente l’appartamento di via
Gradoli (e che segue in tv, come tanti altri italiani, la cronaca
del rapimento), è lei la testimone del tempo, che vive nel mondo esterno
la reazione popolare alla strage di via Fani, che assiste, dall’interno,
al consumarsi dell’assurdo processo “rivoluzionario”. È lei che evoca,
tra quelle mura-prigione (per Moro e per i brigatisti stessi ivi asserragliati)
una riflessione civile fatta di contraddittorie esperienze e visionario
onirismo: un pranzo coi parenti che intonano Fischia il vento,
le immagini di Dziga Vertov e Rossellini per dare concretezza al dramma
della coscienza, rievocando Lenin e Stalin, accostando le brutali
esecuzioni dei partigiani con quella dello statista, ritrovando nella
lettura delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza
la pena del commosso epistolario di Moro. È
lei che lo spia, prigioniero, attraverso un foro nella parete, che
“lo vede” muoversi liberamente nella casa, spirito saggio e indomito
in un covo di dissennata estraniazione sociale.
È un cinema “da camera” quello di Bellocchio, lontano dal docudrama
di Ferrara (Il
caso Moro, 1986), dal paradosso metafisico
di Petri (Todo Modo,
1976), dalle cospirazioni fuorvianti di Martinelli (il recente
Piazza delle cinque lune).
Ma in quegli spazi angusti l’esplosione del vero cinema, visionario
e ispirato, è totale. E alla partitura da camera, intimista e “sognante”,
del Momento Musicale (Schubert) si contrappone, in un crescendo di
intensa emotività, il fascino rock delle musiche dei Pink Floyd. Da
The Dark side of the Moon (a contrappuntare la prigionia e
l’esemplare sequenza dell’ascensore) a I Wish You Were Here
(i funerali di stato), per tornare a Schubert nell’incedere conclusivo
(libero e liberatorio) di Aldo Moro per le vie di Roma. Il potere
del cinema e, solo grazie al cinema, ancora una volta, l’immaginazione
al potere.
ezio leoni -
La Difesa del Popolo
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7 settembre 2003
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