da La Stampa (Alessandra Levantesi) |
Le feste natalizie secondo Abel Ferrara non sono quelle dei Vanzina o di Neri Parenti: c’è ben poco da ridere. Prodotto dal francese Pierre Kalfon e ambientato a New York nel dicembre `93, Il nostro Natale è un film compatto e interessante, ma attenzione a non farvi trarre in inganno dal titolo e guardate piuttosto alla firma. Al centro della scena una famiglia di origine portoricana, agiata e apparentemente normale. Si comincia con la recita scolastica della figlioletta, poi c’è la visita al Babbo Natale del Rockfeller Center, però il giocattolo che la bimba chiede è andato a ruba e non si trova più: neanche a corrompere con una mancia di 500 dollari la commessa come tenta di fare il papà. La sera, affidata la piccola alle cure della nonna, i genitori escono e a bordo di una lussuosa berlina trasmigrano in una periferia popolata di tipi equivoci. Al ritorno, lei si mette a lucidare il ripiano di vetro del tavolo da pranzo, lui si infila una tuta, arrivano degli ospiti e poco dopo troviamo tutti seduti a tagliare eroina e preparare dosi con una meticolosità da professionisti. Interpretati con bella grinta dall’inedita Drea De Matteo e da Lillo Brancato, i protagonisti sono dunque una coppia di spacciatori colti nel loro quotidiano, quasi con un effetto di cinema verità; e lo stile resta scarno, asciutto anche quando a un certo punto scatta un tipico meccanismo di fiction, ovvero il rapimento del marito da parte della concorrenza. Si capisce che il regista sa di cosa parla nel disegnare senza orpelli questo credibile ritratto sul giro della droga a New York, prima che a ripulire le strade pensassero il sindaco Rudolph Giuliani e l’avvento dell’informatica (ormai tra portatile e Internet la roba ti arriva dritta a casa). Se con il pasticciato New Rose Hotel Ferrara pareva essersi perso per strada, in Il nostro Natale riconosciamo la mano del cineasta di talento del melodrammatico Fratelli: qui la chiave è quella sommessa della cronaca e tuttavia il film è percorso da una vena di congelata, plumbea disperazione. Ultima notazione: nonostante sullo schermo non sprizzi allegria, questa New York natalizia del `93 dopo l´11 settembre sembra lontana anni luce. |
da L'Unità (Dario Zonta) |
I film di Abel Ferrara sono come i romanzi noir di Edward Bunker. Entrambi cantori privilegiati, densi, cupi delle loro rispettive città: New York e Los Angeles. Agli antipodi condividono, insieme a ben pochi altri, quell'intreccio unico e raro tra vita e opere. Sanno quello di cui parlano. Il filosofo austriaco Wittgenstein lo diceva sempre di diffidare di quelli che non conoscono l'oggetto delle loro riflessioni. Basta guardarlo in faccia Ferrara per poter dire «lui c'era, lui ha visto, lui sa di cosa sta parlando», come Edward Bunker, dentro e fuori la galera da quando aveva quindici anni. E ancora una volta il regista di King of New York, Il cattivo tenente, Fratelli parla nel nuovo film Il nostro Natale della sua New York, una delle tante. Non quella di Giuliani, quella della grande pulizia, della tolleranza zero, bensì della New York del sindaco di colore David Dinkins, della Grande Mela al tempo della droga bianca, spacciata, venduta, e contrattata alla luce del giorno sotto gli occhi di tutti. Ma Il nostro Natale non è solo l'ennesimo film sul mondo alla deriva dei consumatori di cocaina e dei rispettivi spacciatori. É prima di tutto un film sulla famiglia. La prima parte, straordinaria e potente, ricorda in tutto e per tutto, addirittura l'Eyes Wide Shut del maestro Kubrick : stessa città, New York, stesso periodo, il Natale, stessa composizione familiare (padre madre figlia), stessa qualifica sociale (borghesia media arricchita), stesso (tranne l’ouverture dell'esordio) avvio, il padre e la madre lasciano la figlia alla tata per uscire. E andare dove? Qui la differenza dei due mondi che viaggiano paralleli. La coppia di Kubrick abbraccia l'esperienza fatale del respiro del potere massonico, quindi si dirige verso l'alto. La coppia di Ferrara svolta in basso e si cala, insospettata, tra le fila dello spaccio della polvere bianca in mezzo a bande di etnie diverse che si dividono il territorio in una guerra tra poveri, tra ultimi: domenicani, portoricani, neri, italiani. Facce diverse di una stessa medaglia scandagliata in una radiografia nera e spietata, come il titolo originale fa intendere - R Xmas (che potrebbe voler dire anche «rated christmas» - Natale vietato - o anche «our christmas» - nostro natale). É inutile rintracciare una trama, un tessuto narrativo, gli ultimi Ferrara lo vietano. Tutto si confonde e si complica a restituire una condizione di vita che come un quadro brugheliano lascia i protagonisti staccati senza senso dal fondo delle loro storie e delle loro vite. Dopo l'esordio dorato natalizio e principesco e lineare, la svolta verso l'inferno. Questo é Ferrara: una scheggia impazzita e geniale che viaggia all'interno del cinema americano. |
TORRESINO gennaio 2002