Sono
passati quattro anni dall’ultima, intensa e coriacea, opera di Abel
Ferrara,
Il nostro Natale. Un segno inequivocabile del tempo
necessario per elaborare una nuova riflessione, che, per Ferrara, non
coincide mai con le richieste di un pubblico pretenzioso o con la
morale speculativa della logica produttiva hollywoodiana.
Mary è un
film denso, sofferto, complesso, più di quanto possa apparire. E non è
affatto incomprensibile la reazione scettica del pubblico, della
critica, della Mostra tutta...<<
di fronte alla raffinata condensazione metanarrativa raggiunta da Ferrara
attraverso una serie di decise sequenze centellinate, soprattutto se
si pensa che il motore scatenante dell’intero film è la figura di Maria Maddalena e, in definitiva – uno dei temi cari al regista – la
religione.
Mary è un film che fonde più piani discorsivi e più punti
di vista ma un solo, profondissimo, sguardo. Tre personaggi formano
un’originale trinità e costituiranno il veicolo del discorso ferriano:
Juliette Binoche/Marie è l’interprete di Maria Maddalena nel film Questo è il mio sangue (di cui vediamo la fine delle riprese in
terra santa) del cinico e disilluso regista Matthew Modine/Ted, anche
protagonista nella parte di Gesù Cristo; Forest Whitaker/Tony è un
giornalista televisivo che per duplice motivo entrerà direttamente in
contatto con i temi sollevati dal film con Juliette/Marie/Mary, che è
allo stesso tempo This is my Blood e Mary, ed ha come motivo
ispiratore la rivalutazione della Maddalena narrata dai vangeli
apocrifi.

Ciò che può rendere la visione deludente ma oltremodo perturbante è lo
scarso appiglio narrativo e consequenziale dell’opera. È necessario
perforare la logica degli eventi e abbandonarsi di fronte al dipinto
che con maestria viene tratteggiato da questo maturo Abel Ferrara. È
la mescolanza dell’introspezione – che in vari momenti si può
ritrovare scissa nelle precedenti opere – dell’autore ad essere
abilmente (sotto e sovra)esposta e non la facondia e verbosa
attitudine a voler esprimere concetti. In questo senso non sono
casuali gli innesti notturni di New York, illuminati da una luce
decadente e "religiosa", rivelazione, in prima istanza, del dramma
vissuto dal giornalista televisivo, ma meno superficialmente, motore
dell’accrescimento emotivo e riflessivo dello spettatore. Uno stato di straniamento pervade progressivamente la percezione di chi guarda,
sintesi dell’inconsapevolezza di essere posti ognuno a fare i conti
con la propria spiritualità, sia essa più o meno legata ad una
condizione religiosa. Tutta l’operazione è condotta dal regista senza
cercare il plauso di chicchessia, con l’avvedutezza di essere
sottoposto alle critiche più facilone e con la dignità di non
pretendere di insegnare o imporre nulla a nessuno.
Non è solo Matthew Modine – come appare più chiaramente desumibile – a
esprimere la voce di Ferrara: certo una parte dello stesso Ferrara
pretende di avere il diritto di parlare in modo preponderante (senza
mancare di aprire una polemica con la Passione
di Gibson: “Perché
ha fatto un film su Gesù?” - viene chiesto a Ted - “Perché quello di Mel Gibson ha incassato miliardi”), ma non è difficile pensare che
anche i dubbi, il rimorso e la morale del coscienzioso Whitaker non
siano estranei all’autore. Ammantato da un onirismo analitico, Mary
produce l’effetto della visione compless(iv)a di un quadro, dove i
fatti si sviluppano con lo stesso meccanismo dei sogni: non è quindi
importante il tempo, bensì come vengono disposte le pennellate e
conseguentemente cose esse provocano come reazione. Le reazioni dei
personaggi sono i riflessi e gli interrogativi verso i quali siamo
spinti: perché la folgorazione di Marie? Cosa la spinge nel suo
percorso di ricerca? E di preciso, cosa sta cercando? E anche: quale
profonda intuizione è scattata nella mente di Tony? Cosa lo fa
avvicinare così a Dio? E soprattutto: il regista Ted crede davvero al
suo sfrontato e convulso pragmatismo? O proprio attraverso la sua
mondanità vuole demistificare il suo profondo ascendente religioso?
Sicuramente, per cogliere appieno la ricchezza di quest’ultima opera
di Abel Ferrara è necessaria più di una visione. Mai prima d’ora il
discorso religioso era stato affrontato e circoscritto con tale ordine
da parte del regista. Un distanziamento rispetto alle sensazioni di
Blackout e
New Rose Hotel, più ciniche e disfatte, compimento di un
percorso già iniziato con
Il nostro Natale, in cui l’abilità
stilistica indiscussa si prodiga per aprire un varco di riflessione
teso ad emozionare, con la bellezza e l’efficacia delle immagini, con
la bravura delle interpretazioni – la scena all’interno dello studio
televisivo dove i tre personaggi si unisono per la prima (e ultima?)
volta, nonostante Marie sia presente solo con la voce, racchiude nelle
parole e negli sguardi una tensione che difficilmente si dimentica –
con il contenuto, non didascalico o pretestuoso. Un’abilità che Abel
Ferrara maneggia ogni volta con fulgida accortezza.
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