Venezia 62° - Concorso
Sono passati quattro anni dall’ultima, intensa e coriacea, opera di Abel Ferrara, Il nostro Natale. Un segno inequivocabile del tempo necessario per elaborare una nuova riflessione, che, per Ferrara, non coincide mai con le richieste di un pubblico pretenzioso o con la morale speculativa della logica produttiva hollywoodiana. Mary è un film denso, sofferto, complesso, più di quanto possa apparire. E non è affatto incomprensibile la reazione scettica del pubblico, della critica, della Mostra tutta...<< di fronte alla raffinata condensazione metanarrativa raggiunta da Ferrara attraverso una serie di decise sequenze centellinate, soprattutto se si pensa che il motore scatenante dell’intero film è la figura di Maria Maddalena e, in definitiva – uno dei temi cari al regista – la religione. Mary è un film che fonde più piani discorsivi e più punti di vista ma un solo, profondissimo, sguardo. Tre personaggi formano un’originale trinità e costituiranno il veicolo del discorso ferriano: Juliette Binoche/Marie è l’interprete di Maria Maddalena nel film Questo è il mio sangue (di cui vediamo la fine delle riprese in terra santa) del cinico e disilluso regista Matthew Modine/Ted, anche protagonista nella parte di Gesù Cristo; Forest Whitaker/Tony è un giornalista televisivo che per duplice motivo entrerà direttamente in contatto con i temi sollevati dal film con Juliette/Marie/Mary, che è allo stesso tempo This is my Blood e Mary, ed ha come motivo ispiratore la rivalutazione della Maddalena narrata dai vangeli apocrifi.
Ciò che può rendere la visione deludente ma oltremodo perturbante è lo
scarso appiglio narrativo e consequenziale dell’opera. È necessario
perforare la logica degli eventi e abbandonarsi di fronte al dipinto
che con maestria viene tratteggiato da questo maturo Abel Ferrara. È
la mescolanza dell’introspezione – che in vari momenti si può
ritrovare scissa nelle precedenti opere – dell’autore ad essere
abilmente (sotto e sovra)esposta e non la facondia e verbosa
attitudine a voler esprimere concetti. In questo senso non sono
casuali gli innesti notturni di New York, illuminati da una luce
decadente e "religiosa", rivelazione, in prima istanza, del dramma
vissuto dal giornalista televisivo, ma meno superficialmente, motore
dell’accrescimento emotivo e riflessivo dello spettatore. Uno stato di straniamento pervade progressivamente la percezione di chi guarda,
sintesi dell’inconsapevolezza di essere posti ognuno a fare i conti
con la propria spiritualità, sia essa più o meno legata ad una
condizione religiosa. Tutta l’operazione è condotta dal regista senza
cercare il plauso di chicchessia, con l’avvedutezza di essere
sottoposto alle critiche più facilone e con la dignità di non
pretendere di insegnare o imporre nulla a nessuno. |
Alessandro Tognolo - MC magazine 14 - ottobre 2005 |