Il
cinema crea le storie o le rappresenta? È il giusto amalgama di queste
due componenti quello che fa scaturire l’emozione, ciò che trasforma
lo script in racconto per immagini, che fa (ri)vivere un’idea narrativa
attraverso uno “stile che crea il senso” (Bazin). Del calvario
di Cristo la nostra cultura è permeata in educazione catechistica
e riflessione antropologica
e nell’affacciarsi al discusso film di Mel Gibson non ci può essere
la sorpresa di un racconto inaspettato. E allora l’immergersi nella
fascinazione cinematografica de
La passione di Cristo
diventa un’esperienza che mette a confronto la nostra sensibilità
religiosa e il nostro gusto cinefilo. Sin dalle prime sequenze, tra
gli ulivi del Getsemani, è evidente che l’approccio dell’infervorato
regista americano (un contatto “salvifico” con la fede nella sua vita
privata, un padre integralista preconciliare…) gioca sull’impatto
di una fisicità pregnante, su oggetti e corpi che riempiono lo schermo
(Gesù a
colloquio con Pietro, Giovanni e Giacomo, la sua mano che sfiora l’albero,
primi e primissimi piani che ci mettono in stretto contatto con la
tensione del momento), su incalzanti ritmi di montaggio e suggestivi
movimenti al rallenti, su una trasposizione che travalica la fedeltà
della lettura evangelica e introduce la presenza di un Satana androgino
incombente ed enigmatico, che avrà una sua parte “fuorviante” sulla
strada verso il Golgota.
Entrati repentinamente nell’umus della passione (il fatidico bacio
di Giuda dà il via al racconto
e ad una serie di topoi evangelici - l’episodio dei trenta denari,
l’impiccagione, il triplice rinnegare di Pietro - che nulla aggiungono
alla ricca iconografia del Cristo schermico), siamo sedotti da una
apparenza di verosimiglianza storica che fa uso di aramaico e latino
(con relativi sottotitoli), ma che poi modifica per puro senso estetico
i costumi dei soldati romani, riduce gli stessi ad imbecilli sprezzanti
degni solo delle tavole di Asterix, offre eleganza e turbamento interiore
a Pilato (e signora), inequivocabile ghigno brutale al ribelle Barabba,
trucidi riferimenti ai testi apocrifi per suggellare la sanguinaria
visionarietà del tutto.
Se da una parte Gibson sembra affrontare
La Passione di Cristo
(anzi “del Cristo” , come recita il titolo originale The Passion
of the Christ, con chiare implicazioni escatologiche) come
“storia nuova” per lo schermo e per il pubblico, dall’altra non si può
non rimanere interdetti da un “apostolato” per immagini che accenna al
cammino profetico di Gesù solo in rapidi flashback (in fondo la parte
più riuscita del film) e che si concentra sul sadismo iperrealista
della flagellazione, sulle sevizie nell’ascesa al Calvario, sulla
brutalità ostentata della crocefissione.
Certo la “fabula” della passione del Cristo è stata forse edulcorata,
nel nostro immaginario, per quanto riguarda la sofferenza del Dio
fatto uomo (sono i Vangeli stessi, per primi, a non indulgere
sull’horror!) , ma l’esibizione “impudica” dello scempio della carne
in cosa arricchisce il nostro bagaglio di fede? Quanto interagisce
nella dinamica di una spiritualità salvifica a cui è concesso qui solo
una carrellata finale nella luce del sepolcro e un profilo (un po’
prosaico e inerte) del volto del risorto?
E poi, visto che parliamo di cinema e non di esegesi biblica, perché
l’attualizzazione di un fatto storico deve avere per forza il taglio
sfacciato del reportage televisivo? Perché, senza cadere nella
banalità delle critiche verso un antisemitismo inesistente, bisogna
comunque ritrovarsi di fronte ad un manicheismo multietnico da
operetta? Perché alzare il livello effettistico (non bastava il
ridondante tono splatter?) con manierismi di inquadrature, luci e
musiche (insopportabile il roboante crescendo di una tecnosinfonia di
canti, tamburi e strepiti)? Perché farci sentire blasfemi nel trovare
tediosa (la fine cruenta de) La più grande storia mai raccontata.
Insomma non è solo il discorso di un’iperbole rappresentativa che alla
fine svilisce l’interiorità della storia stessa, non è lo scandalo di
un film pasquale dato in pasto incondizionatamente ad un pubblico
forse troppo ampio (nei paesi anglosassoni il film è stato vietato ai
minori di 18 anni), non è il serpeggiante dubbio di cinica spettacolarizzazione commerciale. Una volta assuefatti all’impatto di
una ferocia figurativa impressionante, se una passione non è davvero
appassionante che “cinema” è?
ezio leoni -
La Difesa del Popolo
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18 aprile 2004 |