Claudio
e Elena si amano, chiamano i rampolli con i nomi "esotici" che i poveri
danno ai bambini, non si lamentano della modesta condizione economica.
Quando la sventura si abbatte sulla famigliola, però, Claudio decide di
risarcire i figli con una vita più agiata. Da muratore si converte in
imprenditore edile; entrando in un mondo di compromessi e illegalità.
Unico italiano in concorso a Cannes, il film racconta una storia familiare
senza perdere di vista il contesto: un' Italia odierna prona al
consumismo, dove dilagano il lavoro nero, il cinismo, la
decolpevolizzazione generale. Un po' nel solco del cinema sociale europeo
(i Dardenne, Cantet...), anche se con un epilogo troppo consolatorio. |
Ancora
famiglie per Daniele Luchetti
. Secondo una voga, del resto, ormai
abbastanza diffusa nel cinema italiano. Questa Volta, però, a differenza
di
Mio
fratello è figlio unico che si
riferiva al passato, o comunque agli anni roventi del dopo ‘68, con uno
sguardo decisamente rivolto al presente, anzi all’attualità di questi
nostri armi così contraddittori e turbati. Eppure si comincia con un
idillio; Claudio ed Elena, giovani sposi con due figli piccoli, che si
amano teneramente. Con un solo problema, la scarsità di denaro perché lui
lavora in una impresa edile dove, nonostante un gestore corrotto, non cede
un solo momento alle lusinghe di comportamenti disonesti e redditizi. Ma
ecco che tutto si rovescia. La moglie muore di parto lasciandogli tra le
braccia un terzo bambino e Claudio, per rifarsi e vincere il suo lutto,
decide di far molti soldi ricorrendo addirittura a un ricatto per
costringere il gestore dell’impresa a concedergli in subappalto certi
lavori nei cantiere. Contrae molti, debiti, sfrutta cinicamente con
compensi in nero degli indifesi operai quasi tutti ‘extracomunitari, ma,
pur agli inizi vincendo, tira troppo la corda e rischierebbe il tracollo
se non intervenissero parenti ed amici a metterlo in condizione di
riprendersi. Sempre, però, passando sopra a qualsiasi principio di onestà.
Lo lasciamo così, senza che intenzionalmente ci ‘si dica se, mentre torna
a godersi l’affetto dei figli, una presa di coscienza possa metterlo in
futuro su strade più giuste. Luchetti il testo se l’è scritto con Rulli e
Petraglia e, pur dando spazi, con tutta l’attenzione possibile, a quel
radicale mutamento di intenzioni e di gesti del protagonista, gli ha
costruito attorno, con accenti colorati e felici, una galleria di
personaggi solo in apparenza secondari, ma capace ciascuno di dare il suo
contributo al procedere dell’azione. Con pagine in cui poi la regia, quasi
sempre guidata dalla macchina a mano, ha mostrato di saper alternare i
ritmi più affannati e spesso anche angoscianti a pause di intensa
emozione. Come la scena muta e distante in cui Claudio apprende la morte
della moglie o quella, concisa ma intensa, che lo induce a svelare a un
giovane sempre pronto a fidarsi di lui il suo colpevole silenzio su un
incidente nel cantiere che aveva provocato la morte di suo padre. Qualche
scompenso narrativo e una certa insistenza in situazioni solo marginali
sono comunque riscattati da una interpretazione sempre salda e felice a
cominciare da quella di Elio Germano, un protagonista di una gestualità e
di una mimica mobilissime e prodighe di espressioni anche forti. Fra gli
altri, Isabella Ragonese, la moglie, Raoul Bova, un fratello, Giorgio
Colangeli, il gestore, Luca Zingaretti, Stefania Montorsi.. Tuffi guidati
con meditata sapienza. |