La Ciénaga |
da Film Tv (Emanuela Martini) |
Film di palude, di provincia, di corpi appiccicosi e feriti, di un caldo umido che non risparmia nessuno, di grovigli e crocicchi familiari che si macerano nell'immobilità: La Ciénaga di Lucrecia Martel, regista argentina poco più che trentenne, è uno degli esordi più impressionanti degli ultimi anni. Non solo per la padronanza che l'autrice dimostra nei confronti della macchina da presa (difficilissimo mettere in scena i movimenti, gli spostamenti, i dialoghi di sei persone nella stessa stanza senza ripiegare sulla macchina quasi fissa e, contemporaneamente, senza piombare nel caos o nella maniera), ma soprattutto per la capacità di far ci percepire, quasi fisicamente, tutto quello che succede sotto i gesti assolutamente quotidiani di un'estate di vacanza. Una famiglia borghese sta in vacanza nella sua casa di campagna, un'altra famiglia di parenti ogni tanto la va a trovare: i giorni ai bordi di una piscina che sembra un pantano si succedono alle tavolate dei pranzi, le sieste e le telefonate di una madre sempre sbronza alle sortite dei ragazzini nei campi e nei boschi, dove la pioggia ha trasformato il terreno in una trappola per animali e automobili troppo pesanti. Dietro questi corpi che il caldo e l'alcol rendono maldestri, che continuano a ferirsi, c'è tutto il malessere di un mondo che è già andato a male e finge di non saperlo. Morbosi e rimossi i rapporti tra madri, figli, sorelle e cugine; rancorosi e rassegnati quelli tra servi e padroni, tra un po' più e un po' meno ricchi. Ma questi ricchi sono ormai agli sgoccioli, un retaggio sfatto di un passato che si ostina a non morire: eppure riescono comunque a ritrascinare giù tutto nella loro palude di decomposizione. Senza un personaggio che sia davvero antipatico, senza nessun proclama, senza oltrepassare mai i confini della cronaca familiare che si è proposta di descrivere, Lucrecia Martel ha fatto un film che ricorda Buñuel, un Angelo sterminatore realistico, dove i personaggi possono anche andarsene dal loro inferno, ma finiscono sempre per ritornarci. |
da Il Manifesto (Roberto SilNepoti) |
Nuova energia si irradia dal cinema latino-americano. Un energetico da non perdere (dopo il semi-italiano Garage Olimpo di Bechis) è La Ciénaga di Lucrecia Martel, argentina, set il nord-ovest del paese, landa semimontagnosa ai confini con la Bolivia. Stile? Dogma '95 (meno enfatico), Buñuel (ma più coinvolto), Araki (meno scolastico). Insomma: morbido e sensuale come un assolo di Lester "Prez" Young o il bandoneon dell'orchestra di Osvaldo Pugliese. Qualcun altro direbbe "Cechov". Comunque un perfetto film da week-end sul disagio, tragico, della vita in provincia, con i suoi orrori ovvi (razzismo, incesto, crudeltà...) e le pulsioni compresse. L'originalissima pellicola è nelle sale italiane (non ovunque: la dittatura criminale c'è già, della distribuzione, ma l'Aja tace) solo ed eccezionalmente in lingua originale senza sottotitoli. E' duro abituarsi, ma è necessario se vogliamo cancellare dalle nostre pigre abitudini la mussoliniana difesa della lingua e la sudditanza all'Impero del doppiatore. La Ciénaga, migliore opera prima della Berlinale (13 anni dopo Quella piccola sporca guerra di Olivera, da Soriano), diretto da una cineasta di 35 anni, scoperta dal Sundance Institute, è un film di sola atmosfera impalpabile, senza narrazione convenzionale. Un puzzle di crudele umorismo. Nella decaduta magione di campagna della Mandragora, a 90 km dalla città di La Ciénaga, passa le vacanze Mecha, 50 anni, 4 figli adolescenti, un marito inebriato dai cocktail, una servitù anarchica... Si catapulterà lì, in quel febbraio estivo, anche la famiglia di Tali, cugina di Mecha: quattro figli ancor più piccoli e incontrollabili, un marito cacciatore, una casa senza piscina: la Mandragora avrà pure la piscina un po' sporca, ma è sempre meglio che in città.... Certo, la nostalgia per il dramma '800 plagia ogni adepto di Dogma (ma il sound materico qui deve tutto a Antonioni), orfano della strutture a imbuto con climax, nostalgico della juissance hollywoodiana. E anche qui la sensazione per tutto il tempo è: "sento che sta succedendo davvero qualcosa di molto brutto". Ma la cosa non increspa troppo il fraseggio e la fluidità melodica di uno sguardo duro, originale. "Eresie ottiche" che ci trascinano dentro quel torpore tropicale, in un caldo umido che schiaccia e affonda il bestiame più grasso e noi, tra quei borghesi sfatti e gli indios di una villa cadente, molto lontana dalla capitale, sperduta tra i monti del nord. La Ciénega è la città, ma significa anche palude, sabbie mobili, e la regista non ha bisogno di far simboli o metafore per visualizzare il concetto: "l'alcool entra dalla porta ma non esce dalla finestra". Ovvero la classe media miserabile, sanguinaria e perbenista, compiaciuta della propria degradazione si agita inutilmente: non ha passato né futuro. E Martel, come Bellocchio all'opera prima, usa "i pugni in tasca"... |
i giovedì del
cinema
invisibile
TORRESINO
febbraio-aprile 2005
minipersonale LUCRECIA MARTEL