Trionfa Alla ricerca di Nemo, la sfida tra Boldi-De Sica e Pieraccioni sta risolvendosi inaspettatamente a vantaggio di quest’ultimo, ma ciò di cui vale la pena di parlare è la sintonia tra il pubblico adulto e prodotti cinematografici non banali come Lost In Translation e Le invasioni barbariche. Sul film di Sofia Coppola ci siamo già sbilanciati, per la commedia umana di Denys Arcand occorre approntare un’analisi critica meditata e “trasversale”. Quella del sessantaduenne regista canadese non è un’opera così significativa dal punto di vista della forma cinematografica (il piano sequenza iniziale ha comunque un impatto di sconvolgente immediatezza), ma incisiva (dolente e ricca di humor) nel raccontare la cronaca di un’agonia. La morte in arrivo è quella del protagonista, Rémy, malato terminale di tumore che ritrova, accanto al suo letto, la moglie stoica che ha sopportato la sua vita dissoluta e fedifraga e il figlio yuppie, transfuga in Europa e ora, per dovere, premurosamente accanto a quel padre che ha sempre disprezzato e rifiutato. A questi vengono ad aggiungersi tanti amici e “amiche” di Rémy che il figlio, commosso, ha fatto in modo di radunare al capezzale paterno. Un gesto narrativamente velato dalla tenerezza degli affetti, ma che nell’economia del racconto (e del cinema di Arcand, che riprende personaggi e tematiche del suo Il declino dell’impero americano, 1986) distende uno sguardo beffardo (e “politicamente scorretto”) sulla nostra (in)civiltà: sulla corruzione, unico passpartout individualistico del capitalismo imperante, sull'extrema ratio dell'eutanasia, sulla “necessità” delle droghe per alleviare il peso del vivere e del morire, sulle illusioni perdute di una cultura intellettual-libertina, sul bisogno di affetti sicuri, nell’amicizia e nell’amore. La barbarie alle porte è allora quella di una contingenza socio-politica (per i canadesi gli Usa stessi, per gli americani - dopo l’11 settembre – tutte le etnie non integrate), ma è pure quella dello stravolgimento dei valori nel trapasso generazionale e, funestamente, quella della morte incombente. Mettere tutto ciò sulla schermo con garbo, amarezza e leggera ironia è un’operazione non facile ed è qui il pregio indiscusso del lavoro di Arcand, il quale sente il cinema come linguaggio lineare e affabulante, che può cambiare registro con la leggerezza di un cambio di scena, che può scavare nelle pieghe dei volti come nelle pieghe dell’anima, che sa inebriarsi di citazioni in sarcastica sintonia con i piccanti ricordi del protagonista: il suo laido (ri)vivere le eccitazioni (giovanili e non) di fronte alle immagini di Ines Orsini/Maria Goretti che “mostra le caviglie” in Cielo sulla palude, di Brigitte Bardot, di Chris Evert (!...) diventa il nostro sorridente rinverdire un immaginario, non solo cinematografico, che ha segnato un’epoca e di cui Le invasioni barbariche diventa un ulteriore amabile, piccolo tassello. ezio leoni - La Difesa del Popolo - 11 gennaio 2004 |