Dopo
la rivelazione di
Il declino dell’impero americano
ed il successo de Le invasioni
barbariche
ecco
L’età barbarica (in originale
L’età delle tenebre, il titolo
italiano punta sull’assonanza). Il tono è sempre quello, tra il serio
e il faceto, con una tematica stavolta più personalistica e intimista,
certo legata all’imbarbarimento della società moderna (con il Canada
francofono come riferimento culturale), ma pulsante dei fastidi, delle
frustrazioni, delle aspettative e dei sogni di Jean-Marc (Marc
Labrèche), solingo travet dell’ufficio statale, sezione reclami.
L’incipit de
L’età barbarica
ha un accattivante fascino melomane, con la scenografia in costume e
l’interpretazione del cantante lirico Rufus Wainwright, ed è l’entrata
in campo di Labrèche a rompere l’incanto, delineando il tono onirico
che caratterizza il film di Denis Arcand, evidente rimando a
Sogni
proibiti
di Danny Kaye. Ma il sorriso qui è velato di greve sarcasmo e
come la radiosa presenza di Diane Kruger, dopo un sensuale abbraccio
sotto la doccia, svanisce in fretta (la brusca interruzione del sogno
è segnato dall’arrivo della moglie), così il reiterarsi delle
consolatorie illusioni che accompagnano la grama esistenza di
Jean-Marc non riescono a tener viva a lungo un’emozione divertita e,
tra umorismo e depressione, la seconda parte de
L’età barbarica
scivola in un’irrisolutezza monocorde sbilanciata tra guizzi di
bizzarra ironia e parentesi di stereotipata verbosità.
Restano piacevolmente impressi l’isterico stacanovismo della moglie in
carriera, l’isolamento umano ed acustico delle figlie (videogame e
cuffiette sempre “inseriti”), l’estremizzato divieto di fumo (messo al
bando per almeno un km dagli uffici, con tanto di cani a controllare
le eventuali infrazioni), il tribunale d’inquisizione linguistico che
persegue l’uso di termini impropri (frasi come “lavorare come un
negro” drasticamente messe al bando!), lo sguardo finale di speranza
verso un futuro incontaminato (le mele di Cézanne!). Ma episodi come
quello del “gioco medioevale”, con eccesso di buffi duelli e scontate
gag (a quanto pare gli insoddisfatti canadesi amano dare così libero
sfogo alle loro fantasie), superano talvolta la soglia del fastidio e
la malinconia di mezza età, che progressivamente prede il posto delle
brillanti invenzioni iniziali, lascia la sensazione di una commedia
d’autore riuscita a metà. Anche nell’originalità corrosiva di Arcand
qualche tenebra si è fatta strada.
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