"Il Male è sempre molto più
attraente del Bene. Anche l'Inferno di Dante è molto più
divertente del suo Paradiso" -
sono parole del regista Neil Jordan
- " Anne Rice ha reinventato la storia dei vampiri, collocandola in
diversi contesti che appartengono alla cultura europea. Mi ha interessato
la questione morale, sono creature che vivono aldilà di ogni concetto
di Bene e di Male, creature di grande solitudine. Anne Rice ha il mio stesso
background, di irlandese cattolica, è stata educata dalle suore.
Chi è stato educato con certi valori, cresce e magari non li ritrova
nella società e da questo può nascere la solitudine"
Il fascino del male, l'angoscia della solitudine, la "claustrofobia"
di un'immortalità scritta nel sangue, l'orripilante ritualità
del vampirismo. I temi di Intervista col vampiro (una storia in
flashback, lunga duecento anni, per visualizzare le memorie di Louis, vampiro
in perpetua crisi esistenziale) sono del tutto seriosi (niente a che vedere
con il divertimento
trasgressivo del polanskiano
Per favore non mordermi sul collo!, né con l'horror "di genere" di
Dracula
e simili) ed esplicitamente repellenti. Eppure
la sala cinematografica si riempie ed anche il pubblico femminile resiste
(pur con le palpebre intermittenti) al susseguirsi di colombe sgozzate,
topi spremuti come limoni (in fondo il sangue in un bicchiere sembra vino!),
vene squarciate, morsi risucchianti... Cosa produce il successo di un film
così ostico, crudo nella rappresentazione di un universo macabro,
freddamente estetizzante nella narrazione di un vivere "altro",
quello dei vampiri, veri protagonisti di una vicenda in cui le tradizionali
"vittime" non sono che casuali prede fugaci e in cui il dramma
è quello dei non-morti, costretti a confrontarsi di continuo con
la propria eternità, con la loro essenza di mostri: perversi, sensuali,
"sanguigni"?
"Il dovere di un buon regista è quello di raccontare una
storia e spero di esserci riuscito, rispettando le sfumature omosessuali
del libro. Poi chiunque può trovarci la metafora che vuole, L'AIDS,
lo star-system, il vuoto morale di certi uomini di potere". Certo
la professionalità di Jordan non si discute (ricordate La moglie
del soldato?) e così anche quella dei suoi straordinari collaboratori
(Philippe Rousselot per la fotografia, Dante Ferretti per la scenografia,
Sandy Powell per i costumi, tutti da oscar); aggiungiamo pure il
richiamo divistico di Tom Cruise e del bravissimo Brad Pitt, ma personalmente
non possiamo non sentirci fuori-sintonia, certo inorriditi (che strazio
quel ditale adunco per intaccare le vene!) e consci della metafora malinconica
di una vita inesorabilmente "perduta", ma in fondo stancamente
distaccati da un'esperienza visiva che riesce a "disturbare",
ma lascia lontana qualsiasi vera, profonda emozione.
Il giudizio critico si può attenuare solo compiacendosi dell'ironia
metalinguistica del finale (il vampiro, precluso alla luce del sole, che
riscopre il piacere dell'alba, come spettatore, di fronte ad uno schermo
cinematografico) o riflettendo sulle contingenze creative del testo letterario
da cui il film è tratto: l'autrice (e sceneggiatrice) Anne Rice
scrisse il romanzo omonimo in un'angoscia tremenda, dopo l'improvvisa morte
della sua bambina. In quest'ottica la tragica figura di Claudia, vampira-adolescente
che soffre più per la propria immaturità di donna, che per
la ineluttabile mostruosità del suo vivere, assume una valenza psicologica
non banale. Ma sono percezioni "intellettuali" a posteriori,
che la regia di Jordan non sa appropriatamente evidenziare e che possono
incuriosire solo chi, dopo il nostro excursus al negativo, abbia ancora
voglia di cimentarsi con il film più tetro che mai Natale cinematografico
abbia offerto.
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