Im Keller (Basement)
Ulrich Seidl - Austria 2014 - 1h 25'

fuori concorso - VENEZIA 71

    Ulrich Seidl usa la potenza delle immagini per fare quello a cui mirava il suo connazionale Thomas Bernhard, attraverso l'ironia della scrittura: svelare ciò che si nasconde sotto il decoro e il perbenismo della società austriaca.
In questo caso il “sotto” è da prendersi alla lettera: “La vita quotidiana negli scantinati è una vera specificità austriaca. Fornisce qualche risposta, ma soprattutto rigurgita di domande.” ha dichiarato il regista, già noto per la trilogia Paradise (Love, Faith, Hope).
In questo film-documentario, presentato Fuoriconcorso, la cinepresa di Seidl penetra all'interno di quelle finestrelle che si aprono sui basamenti dei condomini o delle villette di periferia di una non specificata città austriaca, per presentarci un catalogo di varia e sconcertante umanità: il cantante di arie operistiche, che ha allestito una postazione di tiro, una donna che scende nella cantina per cullare con trasporto materno delle bambole tenute chiuse in degli scatoloni, il fanatico nazista che ha collezionato ogni sorta di cimeli, tra i quali intrattiene gli amici suonando la tromba, con battutacce politicamente ultrascorrette, la donna dominatrice, che sottopone il partner alle pratiche sessuali più umilianti, affermando nel contempo di essere impegnata, nel mondo di sopra, contro la violenza sulle donne....
Personaggi sgradevoli sotto tutti i punti di vista, che, protetti dalle mura delle cantine, si presentano direttamente al pubblico e, senza inibizioni, con lo sguardo in macchina, attraverso interviste più o meno esplicite, si raccontano, facendo precipitare lo spettatore in un crescendo di sconcerto, di orrore e di risate amare (a partire dalla prima scena in cui un enorme cobra divora un coniglio, preannunciando lo sguardo da entomologo con cui il regista osserva la realtà). Un mondo di freaks, che sembrano usciti dalle foto di Diane Arbus.
Il cinema di Seidl sta tutto dentro i confini dell'inquadratura e non preme mai dai margini, anch'egli, come Andersson in A pigeon sat on a branch reflecting on existence, ci presenta una serie di tableau vivant, ma mentre nel film svedese la messinscena è prevalente, qui l'occhio del regista sembra essersi intrufolato da voyeur in una realtà preesistente: il film viene presentato come documentario, gli attori non sono professionisti, ma (apparentemente?) persone che interpretano se stesse.
A questo punto allo spettatore viene spontaneo chiedersi fino a che punto Seidl si sia spinto nel costruire e manipolare questi quadri, per ottenere il suo scopo, egli stesso ammette di avere inventato la storia di Alfreda, la mamma mancata.
Certo nella fotografia magistrale di Martin Gschlacht (il fotografo di
Lourdes e Amor Fou di Jessica Hausner, ma anche di Donne senza uomini di Shirin Neshat) Seidl ha trovato una perfetta rappresentazione della sua personale visione della realtà. L'equilibrio tra luce ed ombra, i tagli geometrici dell'inquadratura danno all'immagine una congelata compostezza pittorica, che a volte ci dice di più di quanto non facciano i personaggi, parlando di sé. Sicuramente questa scelta estetica produce una strana coesistenza tra la scompostezza anarchica dei corpi e le geometrie dello spazio, che contribuisce a un'idea di cinema, in cui l'occhio del regista, come in tutti i suoi film, scruta il mondo, tenendosene fuori e lasciando che siano le immagini, con la loro potenza corrosiva, a parlare da sole.

Cristina Menegolli - ottobre 2014 - pubblicato su MCmagazine 36