Ulrich
Seidl usa la potenza delle immagini per fare quello a cui mirava il
suo connazionale Thomas Bernhard, attraverso l'ironia della scrittura:
svelare ciò che si nasconde sotto il decoro e il perbenismo della
società austriaca.
In questo caso il “sotto” è da prendersi alla lettera: “La vita
quotidiana negli scantinati è una vera specificità austriaca. Fornisce
qualche risposta, ma soprattutto rigurgita di domande.” ha dichiarato
il regista, già noto per la trilogia Paradise (Love, Faith, Hope).
In questo film-documentario, presentato Fuoriconcorso, la cinepresa di
Seidl penetra all'interno di quelle finestrelle che si aprono sui
basamenti dei condomini o delle villette di periferia di una non
specificata città austriaca, per presentarci un catalogo di varia e
sconcertante umanità: il cantante di arie operistiche, che ha
allestito una postazione di tiro, una donna che scende nella cantina
per cullare con trasporto materno delle bambole tenute chiuse in degli
scatoloni, il fanatico nazista che ha collezionato ogni sorta di
cimeli, tra i quali intrattiene gli amici suonando la tromba, con
battutacce politicamente ultrascorrette, la donna dominatrice, che
sottopone il partner alle pratiche sessuali più umilianti, affermando
nel contempo di essere impegnata, nel mondo di sopra, contro la
violenza sulle donne....
Personaggi sgradevoli sotto tutti i punti di vista, che, protetti
dalle mura delle cantine, si presentano direttamente al pubblico e,
senza inibizioni, con lo sguardo in macchina, attraverso interviste
più o meno esplicite, si raccontano, facendo precipitare lo spettatore
in un crescendo di sconcerto, di orrore e di risate amare (a partire
dalla prima scena in cui un enorme cobra divora un coniglio,
preannunciando lo sguardo da entomologo con cui il regista osserva la
realtà). Un mondo di freaks, che sembrano usciti dalle foto di Diane
Arbus.
Il cinema di Seidl sta tutto dentro i confini dell'inquadratura e non
preme mai dai margini, anch'egli,
come Andersson in A pigeon sat on a branch reflecting on existence, ci
presenta una serie di tableau vivant, ma mentre nel film svedese la
messinscena è prevalente, qui l'occhio del regista sembra essersi
intrufolato da voyeur in una realtà preesistente: il film viene
presentato come documentario, gli attori non sono professionisti, ma
(apparentemente?) persone che interpretano se stesse.
A questo punto allo spettatore viene spontaneo chiedersi fino a che
punto Seidl si sia spinto nel costruire e manipolare questi quadri,
per ottenere il suo scopo, egli stesso ammette di avere inventato la
storia di Alfreda, la mamma mancata.
Certo nella fotografia magistrale di Martin Gschlacht (il fotografo di
Lourdes e
Amor Fou di Jessica Hausner, ma anche di
Donne senza uomini
di Shirin Neshat) Seidl ha trovato una perfetta rappresentazione della
sua personale visione della realtà. L'equilibrio tra luce ed ombra, i
tagli geometrici dell'inquadratura danno all'immagine una congelata
compostezza pittorica, che a volte ci dice di più di quanto non
facciano i personaggi, parlando di sé.
Sicuramente questa scelta estetica produce una strana coesistenza tra
la scompostezza anarchica dei corpi e le geometrie dello spazio, che
contribuisce a un'idea di cinema, in cui l'occhio del regista, come in
tutti i suoi film, scruta il mondo, tenendosene fuori e lasciando che
siano le immagini, con la loro potenza corrosiva, a parlare da sole.
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