Il Dogma dice:
tu non userai set costruiti, musica da film, supporti per la
macchina da presa, trucchi o filtri; girerai a colori, in 35 mm e
dal vivo; e, soprattutto, tu non firmerai, non sarai Artista, non
creerai Opere. Perché, dopo cent'anni, il cinema è diventato
una menzogna imbellettata, e per ritornare a non essere pura
illusione deve passare per un voto di castità. La castità è
nell'occhio di una macchina a mano, nella percettibile
inquietudine di un gruppo di giovani attori costretti a
infrangere le regole della recitazione, nel dolore di una stoffa
"al limite".
La storia di
Idioti
di Lars Von Trier (secondo nato, dopo
Festen di Vinterberg, dalle velleità ironiche e provocatorie del
manifesto danese Dogma '95) è quella di un gruppo di
giovani riunitisi a vivere in una casa di periferia per tentare
di praticare l'idiozia, di rinunciare al controllo non secondo le
"regole della follia" (tutto sommato, più tradizionali),
ma secondo gli impacci, la maldestrezza, l'impresentabilità dell'idiozia.
Gli idioti disturbano nei ristoranti, scandalizzano il vicinato e
gli assistenti sociali, corrono nudi per strada, si abbandonano
alle ammucchiate. Gli idioti soffrono, quando si chiedono perché
fanno gli idioti e fino a che punto siano in grado di condurre la
loro "anormalità". Non sono goliardici; sono disperati,
stufi, sempre più svuotati. Finché un giorno, alla fine, l'ultima
arrivata (Karen, che si è allontanata dalla famiglia dopo che il
suo bambino è morto) riesce a superare l'ultima soglia possibile:
stretta tra la propria disperazione e l'incomprensione dei
parenti, fa l'idiota in mezzo a loro, nel suo ambiente "normale".
Un dolore muto e assoluto, che dà un senso alle provocazioni, la
libertà, forse le velleità dei momenti precedenti. È come se
Von Trier
avesse portato la Bess estrema e melodrammatica di
Le onde del destino nella realtà e nella
prosa del "cinema-verità". Come se si potesse davvero
ancora credere a una nuova innocenza del cinema.
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