Hei yanquan - I Don’t Want to Sleep Alone |
Ci aveva lasciati drasticamente interdetti con i raggelanti fotogrammi della sequenza conclusiva del bellissimo Il gusto dell’anguria (2004), ed eccolo di nuovo alla Mostra di Venezia, luogo da sempre – non a caso – prediletto per presentare le sue opere: Tsai Ming-Liang – Leone d’Oro per Vive l’Amour (1994), in concorso nel 2003 con il sorprendente e malinconico Goodbye Dragon Inn – ha mostrato quest’anno, a conti fatti, forse il più bel film della Mostra e sicuramente (ancora una volta) una nuova tappa di un percorso creativo incessante e rigoroso, esteticamente e formalmente, di volta in volta, in continuo miglioramento. I Don’t Want to Sleep Alone è l’evocativo titolo del nono film dell’autore malese, che per la prima volta torna lì dov’è nato (in Malesia appunto) dall’adottiva Taiwan, set imprescindibile e sviscerato delle sue creazioni precedenti. Ma non c’è coinvolgimento emotivo in questa scelta, anzi, lucido distacco nell’osservazione di una realtà drasticamente mutevole e decadente, qual è quella di Kuala Lumpur, centro caotico e rumoroso della solitudine sconfinata che, ineluttabilmente, pervade la vita e il cinema di Tsai Ming-Liang.
L’intensità della visione delle immagini (quasi) in tempo reale, del fluire dei corpi e dei rumori urbani, dei respiri, del dolore, riescono a forzare il limite della finzione cinematografica e pervadere come un fantasma malleabile la sala buia che ci ospita. E non è un caso, perché di fantasmi il cinema di Ming-Liang è da sempre disseminato: per questo può risultare ostico ma al contempo tanto affascinante. Andando a scavare nell’inconscio, creando atmosfere, quadri, densi e reiterati nel loro scorrere ventiquattro volte al secondo, procedendo coi ritmi del pensiero e della riflessione, che, guarda caso, si soffermano proprio lì dove apparentemente non sembra esserci significato. È per questo che il taglio nero che ci impone il risveglio risulta traumatizzante: interrompe la possibilità di (auto)definizione e apre un discorso che obbliga a mettere in discussione i criteri abituali, preconfezionati, di giudizio, di critica, di pensiero verso noi stessi e le infinite osservazioni del reale. E proprio nella stessa direzione si muove l’altro grande film visto alla Mostra, lo splendido quanto perturbante INLAND EMPIRE di David Lynch: visioni smantellanti dell’adagio guardare, del passatempo domenicale durante una fredda pioggia invernale come spesso viene miseramente ridotto il grande schermo. Certo in questa direzione Ming-Liang e Lynch sarebbero appunto noia, nonsenso, e nella migliore delle ipotesi, dubbio, incertezza, che significherebbe l’infiltrazione di un germe, allucinante, per la sua vastità emotiva. I Don’t Want to Sleep Alone è il film più estremo di Tsai Ming-Liang: condensa e sviluppa al suo interno tutti i diversi piani della costante ricerca che l’autore intraprende con i suoi film. Ricerca sui corpi, sullo spazio, sulla materia (spesso impalpabile eppure onnipresente, l’acqua dai mille usi e significati – elemento, del resto, caratterizzante di Venezia, cara al regista), sull’incontro e l’avvicinamento e la solitudine ovviamente – che qui, benché implacabilmente presente, materialmente e simbolicamente rappresentata dalla morbosa relazione che i personaggi intercorrono con un materasso dismesso – viene affrontata con una dichiarazione d’intenti d’apertura chiara fin dal titolo, e resa magnificamente dalla suggestiva scena finale dove il protagonista, disteso al centro del materasso, con accanto l’uomo e la donna che gli sono affettivamente legati, viene condotto lentamente fuori dal campo visivo dal un lento galleggiare.
Ma il film è anche storia (e non sarebbe poi tanto azzardato scriverla con la maiuscola), di immigrazioni, e contaminazioni, allargandone i sensi: dalla Cina (il protagonista), dal Bangladesh (colui che salva il protagonista dopo un’aggressione), lavoratori stranieri chiamati dal governo malese nei primi anni‘’90 a lavorare nei numerosi progetti di costruzione che facevano parte del piano di sviluppo economico del paese, ora disoccupati a causa della crisi economica asiatica. È in uno di questi edifici con al centro un’enorme pozza d’acqua sporca, che si rifugiano i personaggi, “teatro d’opera post-moderno”, come lo definisce il regista. E ancora una volta ritroviamo il volto, il corpo e la fisicità di Lee Kang-sheng (attore presente in ogni film di Ming-Liang fin dagli esordi, qui in un doppio ruolo) con il quale il regista intraprende una vera e propria ricerca, studio meticoloso e analisi perturbante, che di volta in volta lo porta a esplorare i mutamenti, i lineamenti, i particolari corporei in azione, quasi a formare un unicum narrativo negli anni. Infine, una fitta foschia avvolge la città, il (fra)s(t)suono della città lascia spazio a quello più intimo del movimento dell’acqua, e degli sguardi, che si ricercano e si desiderano ma non riescono a compiersi mai totalmente nella loro sfuggente vacuità temporale. Tsai Ming-Liang è estremo perché puro, nel suo pensare e quindi narrare e quindi parlare e utilizzare un linguaggio che non è parola. I personaggi non parlano, nemmeno una parola, non si esprimono e non si preoccupano di farlo – e per contrasto viene subito in mente Private Fears in Public Places di Alain Resnais, dove il soggetto stesso sembra risiedere nel verbo e nella credenza che lo stesso possa portare ad una comunicazione che non avverrà mai completamente – ma comunicano, e, sempre e comunque, è come se dicessero: “Quanta tristezza è condensata nelle parole che non ci siamo detti”. |
Alessandro Tognolo - MC magazine 18 ottobre 2006 |