A STORY OF A MYSTERY...
A MYSTERY INSIDE WORLDS WITHIN WORLDS...
UNFOLDING AROUND A WOMAN...
A WOMAN IN LOVE AND IN TROUBLE
La storia di un mistero...
il mistero di mondi all’interno di altri mondi...
che si svelano intorno a una donna...
una donna innamorata e in pericolo.
Queste le uniche parole con cui
Lynch
ha voluto presentare alla
critica il suo straordinario film, proiettato a Venezia in occasione
del conferimento del Leone d’oro alla carriera, parole accompagnate da
splendide immagini scattate sul set del film. Altrettanto parco di
spiegazioni si è rivelato alla conferenza stampa, soprattutto di
fronte a domande specifiche sul significato del plot o di una singola
scena: “Come si fa ad entrare nella storia?” “Vorrei poterlo
spiegare, ma è il film che si spiega nel suo farsi. Mi piace l’ignoto,
voi usate l’intuito. La sensazione è che il film esista prima che lo
metta insieme, passo per déjà vu che a volte anticipano il futuro.”
“Il cinema salva la vita?” “ No, ma è il modo migliore per scoprire
un altro mondo”.
È chiaro quale sia l’atteggiamento che Lynch suggerisce allo
“spettatore ideale”: lasciarsi andare al flusso delle immagini e non
ostinarsi a far quadrare tutti gli elementi del puzzle. La narrazione
si presenta effettivamente come un puzzle, in cui tempo e spazio,
cinema e realtà si scompongono, si sovrappongono in una serie infinita
di scatole cinesi, come nel precedente
Mulholland Drive,
ma anche come in Strade perdute
e in Twin Peaks,
con la differenza però che, mentre in questi altri alla fine i
tasselli trovavano il loro posto, in
Inland Empire si resta con
l’impressione che molte chiavi interpretative rimangano aperte.
Non risulta certo facile a chi scrive ricostruire il plot, dopo
un’unica visione mattutina del film, disturbata per giunta dal via vai
di spettatori, che dovrebbero appartenere alla categoria dei critici,
che hanno cominciato ad abbandonare la sala anche dopo soli dieci
minuti dall’inizio della proiezione e dopo essere stati assaliti da
incontenibili attacchi di tosse sospetta.
Forse è preferibile attenersi a ciò che Lynch ha fornito alla stampa e
cercare di interpretarlo alla luce della visione del film: una
cartella stampa nero-lucido, molto elegante, contenente vari fogli di
cartoncino patinato, in cui le uniche parole scritte sono quelle
riportate all’inizio (a parte la biografia degli attori principali)
mentre abbondano le immagini fotografiche dal set. Tutt’altra cosa
rispetto al materiale illustrativo fornito in genere dalle produzioni
americane con tanto di sinossi breve, sinossi lunga e commenti già
pronti.
E’ già un’indicazione ben precisa di una poetica in cui l’immagine
prevale sulla parola.
Veniamo al titolo scritto a lettere maiuscole:
INLAND EMPIRE.
Inland Empire è il nome di una zona di San Bernardino, a poche miglia
da Los Angeles, dove si può assistere ad uno strano fenomeno quando il
vento di Santa Ana spazza via lo smog svelando all’improvviso le
montagne all’orizzonte, ma Lynch, alla conferenza stampa, precisa: “il
titolo rivela che tutti abbiamo dentro un enorme mondo interiore,
questo è l’Impero. Il cinema parla un’altra lingua che va oltre le
parole e attacca insieme cuore e cervello. Anche a me l’ispirazione
arriva a pezzi…e passa per astrazioni.”
La storia di un mistero…
una storia c’è dunque, ma è lo spettatore che deve costruirsela, non
tanto con categorie logiche, ma ricorrendo a ciò che il film ha smosso
nelle sue zone oscure, nel suo “Impero interiore”.
Il mistero di mondi all’interno di altri mondi…..
All’interno di una stanza una donna bruna, forse una prostituta (Julia
Ormond), in lacrime, guarda nel televisore-scatola una sit-com
ambientata all’interno di una stanza in cui alcuni coniglietti si
muovono, parlano e si atteggiano ad umani, accompagnati dalle finte
risate del pubblico in asincrono.
Un’altra donna, la bionda Laura Dern, riceve nella sua villa lussuosa la
visita di una vicina di casa, una vecchietta-strega, che ricorda
quella incontrata al suo arrivo ad Hollywood in
Mulholland Drive da Naomi Watts (che per inciso in questo film presta la sua voce ad uno
dei coniglietti), che le racconta due antiche fiabe gitane polacche
che parlano, l’una di un bambino che, aprendo una porta, genera il
male, l’altra di una bambina…
Le unità spazio-temporali nel film sono molteplici: si va
dal presente
in cui l’attrice (Laura Dern) viene ingaggiata per interpretare un
film che è il remake di un film rimasto misteriosamente interrotto,
girato in un paese dell’est europeo, la Polonia,
al passato che fa
riferimento appunto a questo secondo film; ma anche il presente è
sdoppiato in una duplice situazione spaziale in cui si muove una
storia parallela (o forse di poco precedente), quella della prostituta
(Julia Ormond).
Che si svela intorno a una donna… innamorata e in pericolo…
Tutto il mistero ruota infatti attorno a una donna o meglio al tema,
caro a Lynch, del doppio, perché, come in
Mulholland Drive, il
problema è capire che rapporto esiste tra la solare Dern e la dark
Ormond: sono la stessa persona in momenti diversi della vita? Vivono
due storie parallele?
È da questi interrogativi che prende il via il “trouble”,
il plot.
Lynch è forse l’unico regista contemporaneo che considera i personaggi
come eventi, anziché come oggetti: come corpi fatti di tempo oltre che
di spazio. La sua bravura consiste nel dare credibilità a queste
entità filmando non solo i personaggi, ma anche i luoghi e le cose
come se il tempo fosse una componente essenziale della loro
costituzione. Sembra tutto realistico, ma tutto improvvisamente si
rovescia attraverso le figure del playback e del fuori sincrono.
Gli indizi che possono fornire una chiave di lettura sono molteplici,
disseminati per tutto il film: i racconti della vecchietta-strega, la
stanza dei coniglietti (che sicuramente gli appassionati di Lynch
assoceranno alla stanza del nano in Twin Peaks e al teatro di Mulholland Drive), numeri e scritte ricorrenti, il balletto su una
canzone di Nina Simone, che chiude il film (così come un balletto
apriva Mulholland Drive). In una sequenza, durante la lavorazione del
film, i due protagonisti Laura Dern e Justin Theroux, a colloquio con
il regista (Jeremy Irons) e il suo luciferino collaboratore (Harry
Dean Stanton), si sentono osservati da qualcuno, allora Theroux si dà
all’inseguimento di questa misteriosa presenza e, aprendo una certa
porta...
Due film, due registi, due donne: un film sul doppio, ma anche sulla
visione, sul guardare-oltre, che racconta la storia di una donna che
guarda una donna, che guarda una donna…in una mise en abime
vertiginosa, che trascina lo spettatore in un vortice di
interrogativi, emozioni, immersioni ipnotiche nei flussi della
visione. InLYNCH Empire.
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