Tsai
Ming-Liang è un autore affermato già da tempo e non è estraneo ai
festival e ai premi. Nel 1994 è stato premiato con il leone d’ora
a Venezia per Vive l’Amour, nel 1996 a Berlino per The River
(Il Fiume) e nel 1998 a Cannes per
The Hole
(Il Buco). Molto atteso quindi, ha presentato quest’anno al Lido il
suo nuovo lavoro, Bu San (Arrivederci
Dragon Inn).
Un cinema, quello del regista taiwanese, rigoroso e ricercato, lontano
dagli stereotipi di genere, sia orientali sia, e soprattutto, occidentali.>>
Un cinema che richiede impegno da parte dello spettatore, e un coinvolgimento
che lunge dall’essere quel mero passatempo (televisivo magari) che
sempre più spesso il pubblico va ricercando. Il che lo rende un autore
di nicchia, non molto conosciuto dai più ma molto apprezzato dal popolo
festivaliero. E con
Bu San, ancora un volta, Ming-Linag ribadisce
lo sua idea di cinema, estremizzandone i tratti distintivi, spingendosi
letteralmente dentro al cinema stesso, come luogo, fisico e dell’anima,
e come passione.
Dragon Inn è
il titolo del capolavoro del 1966 di King Hu, il maestro capostipite
del cinema di Hong Kong (assieme a Zhang Che), autore del magnifico
A Touch of Zen
(1969), il padre del cinema di cappa e spada e, per intenderci, dei
mirabolanti combattimenti e degli scontri fisici che prevedono salti
oltre le leggi della gravità, riproposti, e portati alla ribalta,
anche da Hollywood recentemente in film come
Matrix e
La Tigre e il Dragone.
Ed è proprio
Dragon Inn
l’ultimo film proiettato dal cinema Fuhe prima di chiudere i battenti
ed essere demolito. All’esterno imperversa una pioggia incessante e un
ragazzo, per ripararsi, entra nella vecchia sala. Sembra tutto deserto
ma lentamente (molto lentamente, quasi in tempo reale) veniamo a
scoprire i personaggi che lo popolano: la bigliettaia claudicante e il
giovane proiezionista, che lavorano assieme da anni senza trovare la
possibilità di incontrarsi. Due anime racchiuse dentro un universo
fatto di solitudine, pervaso dalla malinconia che riecheggia dai fasti
di un tempo che non c’è più, quando la gente si accalcava per vivere
un’emozione comune. Ora in sala, però, non c’è più la folla di un
tempo e ritroviamo dei corpi sperduti, vaganti timidamente da un posto
a sedere all’altro, come quello del giovane gay in cerca di compagnia,
o spaesati, come quello di uno degli spettatori occasionali che
sporadicamente si susseguono o, addirittura fantomatici, come la
presenza dei protagonisti stessi del film
Dragon Inn (Shih
Chun e Miao Tien) seduti in platea, oramai vecchi e piangenti.
Ming-Liang
amalgama con raffinatezza la realtà (il cinema Fuhe alla
periferia di Yonghe era davvero un cinema che presto sarebbe stato
demolito, ed era davvero diventato un ritrovo per gay), la metafora e
la nostalgia e porta sullo schermo quello che è, prima di ogni cosa,
un atto d’amore verso il cinema della propria giovinezza. Il film è
praticamente privo di sceneggiatura, otto battute che,
paradossalmente, dicono tutto: “questo cinema è infestato dai
fantasmi”, sentenzia il proiezionista quando incontra il solitario
ragazzo gay. E ci sembra già così chiaro. Attraverso i suoni, così
finemente giostrati, come il rumore dei passi, il picchiettare
incessante della pioggia (tanto cara al regista, quasi un segno
inscindibile del suo cinema, già presente in
The Hole),
il brusio del muoversi meccanico dei personaggi in sala e delle azioni
più comuni, e soprattutto, i dialoghi, le urla, i combattimenti del
film che si sta proiettando, Ming-Liang riempie quel vuoto infinito
che occupa la sala.
Bu San è carico di tutta la nostalgia e di
tutta la passione che porta con sé il regista. Un film che vive della
magia stessa che è il cinema, che gode del tempo della riflessione e
affida ai silenzi infiniti ciò che non potrebbe, probabilmente, essere
espresso dalle parole. Laconico , come già ci aveva abituato il
regista taiwanese con i suoi lavori precedenti, ma questa volta al
limite del cinema muto. E tutto attraverso uno stile apparentemente
semplice, fatto di lunghissimi piani sequenza con camera fissa,
incursioni dell’occhio afflitto dentro i luoghi vuoti, bui e umidi del
fantasma-cinema. “Non ci ricorda più nessuno” dichiara con le
lacrime agli occhi il vecchio attore protagonista di
Dragon Inn
alla fine dello spettacolo. E a noi ”rimane l’amore”, come
dicono le parole della canzone sui titoli di coda. Ultimo, chiaro,
nostalgico messaggio, dedicato alla stessa, squallida fine di tanti
cinema delle nostre città, trasformati, davanti ai nostri occhi
esterefatti, in luccicanti mausolei del consumismo più sfrenato.
Alessandro Tognolo -
MC magazine 8
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ottobre/novembre 2003
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