Con una stagione più che mai ricca al
botteghino, impreviste maxi-teniture "di genere" (Seven
e I soliti sospetti) e vincitori sorprendenti (i Viaggi di nozze
di Verdone una spanna sopra
Pocahontas!), il nuovo hit delle classifiche
"imposto" dall'efficientissima industria americana è una
vera sfida-divistica degna della grande tradizione hollywoodiana.
Heat
- La sfida: Al Pacino contro Bob De Niro, il poliziotto implacabile
sulle tracce del genio delle rapine, il tutore dell'ordine stressato da
un lavoro che distrugge la privacy a confronto con il fuorilegge glaciale
che sa ritrovarsi uno spazio sentimentale tra i ritmi mozzafiato del crimine.
Ma
soprattutto due tra i più grandi interpreti del cinema USA per la
prima volta insieme in uno straordinario film d'azione ove tutto è
iperbolico, dalle figure semi-mitiche dei protagonisti agli sconvolgenti
conflitti a fuoco per le strade di Los Angeles. Michael Mann
ne registra
la dinamica incandescente con l'enfasi avventurosa che è ormai peculiare
del suo cinema (Strade violente, Manhunter, L'ultimo dei moicani)
e sa dirigere con impeccabile professionalità i due antagonisti
e i loro partner. In una realtà in cui la violenza esplode e si
placa con allucinata nonchalance e bottini da capogiro non saziano mai
abbastanza la cinica imprenditorialità dei rapinatori, il difetto
stilistico-morale di un film come
Heat è quello di infastidire
lo spettatore con il manierato efficientismo del detective Hanna, di invischiarlo
nella complicità esistenziale di McCauley e compari, e non avere
poi il coraggio di sposarne fino in fondo la trasgressività di un
lieto fine "negativo". Eppure, in un'America dove la legge ha
l'obbligo di trionfare almeno sullo schermo, in un cinema dove l'iperbole
dell'azione sembra essere l'unica mattatrice, la scena clou del film di
Mann sta in un piccolo gesto della mano di una donna, sta in uno sguardo
d'amore soffocato da un presente senza futuro, sta nell'eversivo sgusciare
di un pesce piccolo dalla grande rete della giustizia.
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