I gatti persiani
(Kasi
Az Gorbehaye Irani Khabar Nadareh)
Bahman Ghobadi
- Iran
2009
- 1h 46' |
|
Premio speciale della
giuria |
Dieci
anni fa, il regista iraniano di origine
curda Bahman Ghobadi vinse la
Caméra d'or a Cannes con
Il tempo dei cavalli ubriachi.
Ora torna con un film girato in clandestinità e in pochi giorni per le
strade di Teheran. Due giovani musicisti percorrono la scena musicale
underground della capitale: vogliono formare un gruppo e lasciare l'Iran
alla volta dell' Europa. Un film che non può uscire nel Paese d' origine,
ma che ha trovato la strada dei festival internazionali. In equilibrio tra
realismo ed estetica del videoclip per i vari generi musicali che
rappresenta (rock, rap, musica popolare), I gatti persiani è però
innanzitutto un film politico: che proclama forte e chiaro come i governi
non potranno mai soffocare la creatività e la voglia di espressione dei
giovani. |
Roberto Nepoti - La Repubblica |
Al
suo secondo giorno, Cannes butta sul tavolo il suo primo capolavoro. Ma a
farlo non è il concorso, bensì la rassegna parallela Un certain regard,
inaugurata ieri dal film iraniano
Kasi
az gorbehaye irani khabar nadareh
(letteralmente, Nessuno sa niente sui gatti persiani), un viaggio
travolgente e insieme sconvolgente nelle «catacombe» di Teheran, dove sono
costretti a nascondersi i giovani che vogliono suonare e ascoltare rock. A
firmarlo il regista curdo-iraniano Bahman Ghobadi, in Italia conosciuto
per il bellissimo
Il tempo dei cavalli ubriachi
e in patria regolarmente
boicottato se non totalmente censurato dal potere centrale. Scritto
assieme a Hossein M. Abkenar e alla fidanzata Roxana Saberi - finita sotto
i riflettori del mondo per il processo, conclusosi pochi giorni fa
abbastanza felicemente, in cui era stata accusata di spionaggio a favore
degli Stati Uniti e che ieri notte era data in partenza da Teheran per gli
Usa o per Cannes -, il film segue le disavventure di un ragazzo e una
ragazza, Ashkan e Negar, decisi a emigrare per poter coltivare la loro
passione per la musica. Anche se per farlo hanno bisogno di passaporti e
visti, anche per i musicisti disposti a unirsi a loro per formare un
gruppo «vendibile» all' estero. Per questo entra in campo Nader,
insostituibile guida per le cantine e i nascondigli della città, dove
trovare chi può vendere i documenti falsi ma anche scritturare il resto
del gruppo. A questo punto il film diventa un viaggio avventuroso e
istruttivo tra i veri musicisti underground di Teheran, costretti a
suonare sui tetti delle case o nelle stanze più nascoste, alla scoperta di
un mondo di cui nessuno parla ma che dimostra una vitalità e un' energia
incredibili. Per non parlare della forza delle loro canzoni - heavy metal,
indirock, rap - tutte preoccupate di raccontare il loro Paese, la
condizione giovanile e le tante contraddizioni della politica ufficiale.
Un mondo che nessuna autorità avrebbe autorizzato a mostrare e che infatti
Ghobadi ha filmato senza permesso, in 17 giorni, spostandosi in moto con i
suoi musicisti, con una piccola telecamera digitale perché il materiale a
35 mm è di proprietà dello Stato e a un regista così non l'avrebbe mai
dato. E usando persino i dvd illegali dei suoi film per corrompere i
poliziotti che per due volte avevano voluto arrestarli. Ghobadi non parla
mai direttamente di argomenti politici (se non in un' esilarante scena di
processo-ramanzina inflitta a Nader, una prova d' attore che meriterebbe
da sola l' Oscar) ma mostra la corruzione diffusa e la brutalità della
polizia e sfrutta la mobilità delle riprese per iniettare nel film un
ritmo e un' energia immediatamente coinvolgenti. Come l'entusiasmo
contagioso dei suoi protagonisti, disposti anche ad andare in prigione per
soddisfare la loro passione e pronti a mettere nel conto anche la crisi di
latte di un gruppo di mucche che non sembrano apprezzare per niente le
prove di un complesso metal nella loro stalla. E anche se la durezza e la
crudeltà della realtà finisce per entrare nella storia, il tono del film
non è mai lamentoso, ma sempre sorretto da un'ironia capace di riscattare
la disperazione della realtà. |
Paolo Mereghetti - Il Corriere della Sera |
Un
regista che non riesce a fare il film che vorrebbe ne gira un altro quasi
per caso che parte come un rigagnolo e arriva come un fiume in piena. In
Occidente sarebbe una riflessione sui mezzi e i fini di chi fa arte. In
Iran è il manifesto di una generazione, la scoperta di un mondo, una
battaglia per la libertà d'espressione che diventa lotta per la vita tout
court. Nel paese di Ahmadinejad infatti le donne non possono cantare, la
musica occidentale è proibita, il rock è un delitto severamente
punito[...] Ma non pensate a un film militante o a una requisitoria sugli
intrecci tra musica e lotta politica. Malgrado la nota dolente annunciata
fin dalle prime scene, la docu-fiction di Ghobadi preme con sapienza sui
pedali più diversi. C'è l'umorismo ripetuto del traffichino che sa
cavarsela in ogni sitazione (o quasi), il pathos del giovane che insegna
musica a bambini stupefatti e adoranti, la suspense della festa nella
Teheran bene interrotta dall'irruzione della polizia (qualcosa di analogo
si intravedeva in
Oro rosso di Jafar Panahi, oggi in
prigione). In gioco c'è il destino di un paese ma Ghobadi evita con cura
le maiuscole. Perché alla fine, ancor prima che di democrazia e libertà,
parole sempre astratte, si tratta di piacere contro noia. Come ci ricorda
quel vecchio falsario vestito da dandy mettendosi giocosamente a cantare.
E la noia, alla lunga, perde sempre.
|
Fabio Ferzetti - Il Messaggero |
promo |
Negar e Ashkan,
appena usciti di prigione, decidono di formare un gruppo musicale.
Girano così per Teheran alla ricerca di altri musicisti e cercano
di convincerli a lasciare clandestinamente l'Iran. Non avendo
infatti nessuna possibilità di essere prodotti in patria,
progettano di arrivare in Europa. Ma senza soldi e senza
passaporto l'impresa si rivela piuttosto ardua.
A metà tra film di finzione, videoclip musicale e documentario,
Ghobadi firma così il proprio grido di ribellione all’inettitudine
intellettuale e creativa auspicata se non imposta dal regime,
girando di nascosto e senza nessuna autorizzazione un'opera
mirabile, premio speciale della giuria allo scorso Festival di
Cannes. |