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più di trent'anni dal suo suicidio, il fascino ambiguo e morboso delle
fotografie di Diane Arbus non smette di inquietare. Perché quella
maniacalità nel riprendere i personaggi più marginali? Nell'esaltare i
segni di una infelicità così sofferta e disperata? Nel cogliere il lato
più oscuro e sgradevole dell'umanità? Una risposta semplice ed esaustiva è
difficile da ipotizzare e lascia il campo aperto a spiegazioni spesso
divergenti se non opposte (come si può leggere anche nella biografia sulla
fotografa scritta da Patricia Bosworth e appena ripubblicata da Rizzoli).
Un'ambiguità che il regista Steven Shainberg e la sceneggiatrice Erin
Cressida Wilson hanno trasformato in libertà assoluta, inventando «un
ritratto immaginario di Diane Arbus» come dice il sottotitolo di
Fur,
il film che ieri ha inaugurato la Festa del cinema di Roma per la sezione
Première. L' idea centrale del film è quella di sintetizzare le pulsioni
che guidarono le scelte fotografiche della Arbus nel fascino che esercita
su di lei un misterioso inquilino che si rivelerà essere una specie di
uomo-scimmia (o leone, a vedere il trucco del volto), totalmente coperto
di peli. Venuto a vivere al piano di sopra proprio quando Diane non riesce
più a condividere la vita del marito (un fotografo pubblicitario piuttosto
routinier) e il conformismo borghese inculcatole dai genitori (due ricchi
commercianti di pellicce), Lionel, così si chiama l'uomo-scimmia, diventa
la guida che porterà la Arbus a conoscere mondi inimmaginati (nani,
donne-torsi, giganti, dominatrix con i loro clienti, travestiti) e a
confrontarsi sempre più esplicitamente con l'attrazione (anche sessuale)
che prova per loro. Niente di tutto questo è realmente documentato
(nell'appartamento di Washington Place, sopra la Arbus viveva in realtà
l'attrice Ali MacGraw; la sua prima macchina fotografica fu una Leica e
usò la Rolleiflex solo a partire dal 1962, quattro anni dopo il periodo in
cui è ambientato il film) ma l'ambizione del regista non è quella della
verità, piuttosto di scavare dentro le pulsioni che spingono una persona a
confrontarsi con la parte più oscura di sé. Per farlo ricorre
esplicitamente a citazioni favolistiche, da La bella e la bestia ad
Alice nel paese delle meraviglie, ma soprattutto ribalta il punto
di vista con cui siamo abituati a guardare chi è diverso da noi. In
Fur
non c' è né lo sguardo commosso e partecipe di Lynch e del suo
Elephant Man
(che obbligava a confrontarci con i tanti pregiudizi sui «diversi») né
quello quotidiano e asettico di Tod Browning e di
Freaks
(che rispediva l' accusa di mostruosità agli esseri «normali») né quello
sgradevole e amaro di Ferreri e della
Donna scimmia
(dove i rapporti umani erano solo di sfruttamento ed emarginazione).
Shainberg sceglie di identificarsi con il voyeurismo della Arbus (meglio,
che attribuisce alla Arbus) e gioca rischiosamente con l'ambiguità di una
relazione che dal gusto per il perverso si incammina, forse con troppa
disinvoltura, verso la passione fisica. Il pericolo in agguato è quello
del kitsch, di caricare certe immagini di un eccesso di significato e
quindi renderle banali, o involontariamente comiche. Succede per esempio
con la barba che si fa crescere il marito della Arbus per «invidia» verso
l'uomo-scimmia, troppo posticcia per essere credibile; o con il cappotto
di peli che Lionel le lascia in eredità (!). Non succede invece con la
descrizione del mondo di miserabili e reietti che Diane incontra, filmati
con un pudore che rivela un indubbio sentimento di rispetto, se non
addirittura di amore (come poi uscirà dalla foto fatte dalla vera Arbus).
Ma è soprattutto la prova di Nicole Kidman a reggere il peso del film e
impedire che l'eccezionalità dell'aneddoto scivoli nel cattivo gusto. Con
il suo sguardo smarrito, con i suoi gesti repressi, con la sua recitazione
trattenuta riesce a equilibrare una storia dalle ambizioni (troppo)
estreme e a infondere una scintilla di vera umanità in tutte le scene,
anche in quelle meno risolte (la lunga rasatura finale del mostro).
Raffreddando il melò e dimostrando di aver saputo davvero capire lo
spirito più vero della fotografa. |