Ultimo, e
decisamente il migliore, del poker di italiani in concorso,
La doppia ora
dimostra quanto
sia sterile la polemica innescata a proposito del film sul '68 di Placido
prodotto sotto l’egida berlusconiana. Perchè il problema non è (solo) chi
produce e distribuisce ma (soprattutto) chi c’è dietro la macchina da
presa. Anche l’opera prima di Giuseppe Capotondi ha il tocco della Medusa,
ma reca pure il marchio della preziosa e oculata Indigo Film, animata
Francesca Cima oltre che da Nicola Giuliano e Carlotta Calori, l’etichetta
di qualità cui dobbiamo i film di Paolo Sorrentino e
La ragazza del lago di Molaioli.
Quanto dire il nostro cinema migliore, più moderno, "europeo",
linguisticamente raffinato e fuori dal coro. Non fa eccezione questo
avvincente thriller psichico a scatole cinesi, che declina senza remore
alcune referenze importanti quanto variegate, da
Hitchcock a Polanski, dal Kieslowski di
La doppia vita di Veronica al Lynch
di
Twin Peaks sino
(soprattutto per una certa costruzione della suspense) allo Zemeckis di Le
verità nascoste, ma che scintilla di luce propria nell’organizzazione
visiva della tensione e nella nitida scansione di una sceneggiatura (la
firmano Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo) che
architetta colpi di scena e cambi di passo con ottimo ritmo e sapiente
dosaggio degli interrogativi. Al centro, in una suggestiva e notturna
Torino, l’ambigua figura femminile di Sonia (Ksenia Rappoport, sempre
vibratile e di una sfuggente seduttività), che viene da Lubiana (scelta
etnica di script forse non opportunissima, visti gli sviluppi narrativi
successivi e l’aria che tira nel paese), la quale di giorno fa la
cameriera ai piani e di notte l’entraîneuse in un bar di "speed date"
gestito da una garrula tenutaria (impagabile cameo di Lucia Poli). In uno
di questi incontri incrocia l’ombroso ex poliziotto Guido (Filippo Timi,
attore in crescita ormai esponenziale per intensità e presenza fisica) che
ora fa il custode in una villa. I due si attirano e si innamorano con
prudenza, lenendo le reciproche ferite dell’anima. Ma un atto di violenza
irrompe tragicamente lasciando Sonia da sola, smarrita, e circondata da
inquietanti presenze. È la parte migliore del film, quella dove Capotondi
cesella un clima horror quasi da manuale, brulicante di segnali angosciosi
e nel quale la realtà sembra collassare: lo fa con bella perizia tecnica,
ottima scelta di tempi della paura, sintassi sospensiva e un andamento
indiziario (apertosi del resto con l’enigmatico suicidio iniziale). Poi
gli autori decidono, hitchcockianamente, di svelarci la verità: non avendo
mai ritenuto che riferire criticamente di un film si esaurisca nel (o
coincida con) raccontarne la trama, non comincerò certo a farlo in quest’occasione.
Basti dire che si apre un secondo film, un'altra "ipotesi di reale" dove i
ruoli si rovesciano. A questo punto però le domande si moltiplicano: qual
è la vera Sonia? Le scelte della prima corrisponderanno a questa "nuova"
donna? O la verità nascosta è alla fin fine una sola? La metafora della
"doppia ora" (23 e 23, 14 e 14 ecc.) in cui "scatterebbe" il passaggio
dall’una all’altra dimensione si fa minacciosamente ammonitorio ma il
disvelamento finale preferisce i toni del melò, e il ritmo inevitabilmente
si allenta. È un’opzione rispettabile, ma si sarebbe preferito che
Capotondi insistesse su un piano diverso e sui toni forti della parte
centrale, senza magari disperdersi in qualche esibizionismo di troppo: in
ogni caso una lezione di cinema allarmato e allarmante, così poco
"italiano" da avvincere... |