A prima vista il titolo, Disconnect, sembrerebbe improprio. Perché i tutti i personaggi del film di Henry Alex Rubin sono semmai 'overconnected' - tramite smartphone, pc portatili, tablet - ed è proprio questo il loro problema. (...) piano su cui il film è fortemente interconnesso riguarda poi i diversi episodi narrati: nella direzione di Rubin (regista di spot pubblicitarie di un documentario nominato all'Oscar, Murderball, qui al debutto nel lungometraggio) le fila della sceneggiatura di Andrew Stern sono organizzate con sapienza in un arco narrativo che combina diversi generi - dramma familiare, suspenser, thriller - culminando in un teso epilogo a destini incrociati (dove è ridondante, però, l'uso del 'rallenti', sottolineato dalla musica emotiva di Max Richter). Un po' come succedeva dell'ottimo Crash di Paul Haggis, Oscar 2006 come miglior film e migliore sceneggiatura. E ancora: è ben connesso il cast, composto da star di secondo livello (Jason Bateman, Andrea Riseborough, Alexander Skarsgård, Prank Grillo, Paula Patton...) organizzate in un ottimo gioco di squadra, cui contribuiscono efficacemente alcuni interpreti giovanissimi, più o meno al debutto sullo schermo. Che cosa è 'disconnect', allora, nel film che ha scelto di portare questo titolo? Sono i rapporti umani, evidentemente: scollegati da se stessi, i personaggi esercitano o subiscono la violenza della 'rete' che, sotto la tutela vile dell'anonimato, permette di piratare dati sensibili, rubare identità, demolire psicologie adolescenziali, tentare mogli trascurate e quant'altro. Come si vede, l'argomento è di stringente attualità. E se coloro che parlano del web si dividono sempre più (per citare un celebre saggio di Umberto Eco pubblicato cinquant'anni fa) tra 'apocalittici' e 'integrati', Rubin milita risolutamente tra i primi, rappresentando l'universo virtuale - e i social network in particolare - come origine e causa prima di un presente disumanizzato. In ciò il suo film potrà apparire agli 'integrati' il frutto di un''apocalittica' ideologia anti-tech vecchia e conservatrice (chissà che avrebbe da dirne oggi Marshall McLuhan, il grande teorico dei media scomparso troppo presto?). Restano fuor di dubbio, in ogni caso, le buone intenzioni umanistiche del film che, dopo avere condotto tutti i personaggi sull'orlo della rovina, opta alla fine per un - relativo - ottimismo della volontà. |
Roberto Nepoti - La Repubblica
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Non ci sembra giusto accusare Disconnect - esordio nel lungometraggio di finzione di Henry-Alex Rubin, giovane documentarista già candidato all'Oscar per il suo Murderball - di mettere sotto tiro la rete. A nostro avviso il film si limita a prendere atto delle insidie del mondo in cui viviamo: non è che le nuove tecnologie creino di per sé solitudine e incapacità di contatti umani - il cinema di Antonioni e altri parlava di alienazione decenni prima dell'invenzione di Internet: tuttavia è indubbio che possano diventare ottimi strumenti di isolamento e fuga dalla realtà. Per esempio per una coppia che la morte del figlioletto ha estraniato, cosicché cercano conforto sul web, lui giocando, lei scambiando email con uno sconosciuto; o per un tredicenne introverso con un'innamorata che non esiste, scherzo di due compagni di scuola; mentre una giornalista TV che vuole fare uno scoop a spese di un ragazzo, porno star in un sito per adulti, rischia di rovinarlo. Strutturato come Crash e Babel su un intreccio di storie che si scoprono collegate, Disconnect è un po' troppo programmatico nell'assunto, ma il disegno è limpido, la regia fluida e gli interpreti, da Hope Davis a Frank Grillo a Jason Bateman, assai efficaci. |
Alessandra Levantesi Kezich - La Stampa |
L'ex documentarista Rubin racconta in Disconnect con precisione e passione (e con qualche caduta di stile) un intreccio di storie sulla ricerca del contatto umano in un mondo dove la realtà quotidiana animata da computer, video giochi, social network, sembra più vera del reale. La trama segue le vicende di personaggi imprigionati nella Rete e nelle trappole che si nascondono nelle chat, nei siti di incontro e nei social network. (...) storia che mescola dramma, thriller e azione. La Rete ha accorciato le distanze, spostando avanti i nostri confini e rendendo il mondo godibile attraverso comunicazioni veloci. La Rete ha migliorato il ritmo della vita, a patto però che non ci si ritrovi inghiottiti in una dimensione virtuale che fa dimenticare il senso dell'umanità, dei sentimenti, della scoperta tangibile e non telematica. Questo il messaggio lanciato da Henry Alex Rubin, per il quale il film è una sorta di «invito-esortazione: scollegatevi e tornate a vivere». Sceneggiato da Andrew Stern e ambientato a New York nel cast di Disconnect (ovvero Disconnetiti) recitano Alexander Skarsgård, Jason Bateman, Paula Patton, Max Thieriot, Jonah Bobo, Hope Davis, Colin Ford, Frank Grillo, Michael Nyqvist e Andrea Riseborough. I vari personaggi non si conoscono, sono sconosciuti, ma le loro vicende s'intrecciano coinvolgendo lo spettatore e disegnando un quadro realistico e a tratti inquietante di ciò che può derivare dalla solitudine. Su tutto emerge la disperata ricerca di contatti umani. Ma si avverte anche il rumore di un suono metallico che svuota l'interiorità della gente, spersonalizzandola fino a farla diventare una sorta di specie aliena, che non conosce il senso della cultura e della Storia, sospesa tra incoscienza e ignoranza. E certo, la Rete, nella sua democratica globalità, oltre ad essere una fonte inesauribile di informazione è diventata anche una possibile trappola, dove libertà di espressione si trasforma spesso in violenze verbali che rimbalzando rischiano di generare quell'effetto 'butterfly', a cui il cinema ha già dedicato indimenticabili capolavori (come Babel con Brad Pitt). Il consiglio di Rubin è lampante: 'Disconnettiti per vivere davvero'. In un'epoca frenetica e ingabbiata nella tecnologia, staccare la spina è per lui la cosa migliore. Ma si può ancora uscire da questo meccanismo? L'individuo è capace di fare a meno di smartphon, tablet e computer interconnessi? I personaggi rappresentati da Rubin sono tutti alle prese con le conseguenze di una troppo marcata dipendenza tecnologica; costruiscono se stessi come automi meccanizzati, in cui gli strumenti tecnologici diventano quasi dei filamenti che continuano ad allungare le esistenze. Il cellulare di Bateman, l'I-Pad dei bulli, il computer in cui ci si svende di tutto, soprattutto il proprio corpo, e nel quale si investono speranze disilluse. Per Rubin il Web è pieno di falsità e illusioni, e, non a caso, lo mette in scena in una New York di periferia arida e sterile, dove persino i raggi del sole faticano ad entrare. Candidato all'Oscar per il documentario Murderball, il regista focalizza ora una cruda rappresentazione, dove il disagio è inconscio ma inevitabile. |
Dina D'Isa - Il Tempo |
promo |
Differenti storie si intrecciano in un mondo in cui le persone cercano relazioni umane nel mondo di internet. Una coppia in crisi riscopre l'amore quando si ritrova costretta a mettersi alla ricerca dei soldi rubati in seguito a un furto di identità. Un ex poliziotto vedovo è alle prese con la difficile crescita di un figlio che perseguita on line un compagno di classe. Due affettuosi genitori lottano contro il tentato suicidio del loro ragazzo introverso all'inverosimile. Un'ambiziosa giornalista televisiva convince un adolescente reclutato su un sito di videochat per soli adulti a divenire il soggetto di una storia che metterà a rischio la vita di lui e la carriera di lei... Montaggio concitato e caratteri sceneggiati con credibilità costruiscono un dramma corale efficace in cui la messa in scena delle comunicazioni virtuali resta una sfida difficile da vincere. La regia, fluida e coinvolgente, focalizza una realtà estremizzata ma densa di verosimiglianza, dove il disagio è inconscio ma inevitabile e il monito morale è ineccepibile. Didascalico, ma memorabile. |
LUX - gennaio/febbraio 2014 |