C’è
un’immagine destinata a rimanere nella memoria di chi ha visto questo
bellissimo film: un campo totale della steppa desertica del Kazakistan,
al centro del quale si riconosce una fattoria diroccata. È il luogo in
cui è ambientata tutta la vicenda che il film racconta: la storia di
un giovane medico, che vive solo, con l’unica compagnia di un cane, ai
confini del mondo, in attesa dei rari pazienti che vengono a chiedere
aiuto, fino a che un’oscura minaccia, che egli ha cominciato a
percepire attorno a sé, diventa realtà.
Una situazione di perenne attesa che non può non richiamare
Il deserto dei
Tartari. Il deserto è il vero protagonista
di questo film, come di molte altre pellicole viste a questo festival,
dal memorabile
Vegas di Amir
Naderi, a
The Burning Plain
di Guillermo Arriaga, a
Gabbla
dell’algerino Tariq Teguia, al bel documentario di Gianfranco Rosi
Below Sea Level.
Deserto come metafora della vita, ma soprattutto dell’aridità dei
sentimenti in Naderi e Arriaga, deserto come fuga dal mondo per Teglia
e Rosi, deserto come spazio senza tempo per Kalatozishvili, come luogo
in cui “i sentimenti sono assoluti e prendono spesso il sopravvento
sugli uomini….Attraversare la prateria nel nostro caso significa
vivere la vita. Ma viverla non solo sopravvivendo…in questo tragitto
l’uomo cambia tanto da essere irriconoscibile.” (da un’intervista
a Radio Cultura Russa)
Dikoe Pole
(Prateria selvaggia)
parla infatti di come la morte si sciolga nella vita, di come si
mescoli ad essa in una sostanza omogenea che non consente di tracciare
un confine netto tra ciò che è vivo e ciò che è morto. Su questo
inesistente confine vive il protagonista del film Mitja (il bravo e
affascinante attore di teatro Oleg Dolin), un giovane medico, che, per
la caratteristica stessa della sua professione, svolge il ruolo di
traghettatore tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Questa sua
permanente condizione di frontiera trova il suo equivalente visivo
nella casa, che non si erge, ma sembra fluttuare nella steppa.
Non è importante da dove venga e perché sia capitato lì, ciò che
importa è come vive la sua vita, come assolve il suo desiderio di
essere se stesso, come si rapporta con chi viene a interrompere la sua
solitudine: il poliziotto locale, la fidanzata, che presto lo
abbandona e i suoi pazienti, un uomo in crisi cardiaca conseguente a
una sbronza, un contadino con la sua vacca malata, una fanciulla
ferita per gelosia. Ma il suo vero interlocutore, il suo contro campo,
è il paesaggio, sono le colline deserte che egli vede dalla sua casa e
che, a un certo punto sembrano abitate da un doppio di sé. E sono
proprio i movimenti di macchina, che ricordano per la loro ampiezza e
fluidità il nostro
Sergio
Leone, di cui il regista si
dichiara grande ammiratore, assieme agli effetti di montaggio, che
sottolineano questo rapporto di compenetrazione tra l’uomo e il
paesaggio.
Un eroe positivo dunque, uno dei pochi presenti in questa rassegna, il
cui mondo interiore viene gradualmente rivelato allo spettatore dalla
sapiente regia di Kalatozishvili, con tono pacato, non privo di
humour, senza indulgere in quegli eccessi che spesso caratterizzano il
linguaggio dei suoi connazionali.
Michail Kalatozishvili, tra parentesi nipote di un importante regista
sovietico Michail Kalatozov (autore tra l’altro di
Dove volano le
cicogne) è un 49enne cineasta georgiano, ma anche scrittore,
produttore, direttore della fotografia, per realizzare questo mirabile
film ha recuperato una sceneggiatura scritta negli anni ’90 da Lutzik
e Samorjadov, due figure di culto nella cinematografia moscovita,
entrambi deceduti, e, spogliandola dei riferimenti troppo espliciti
alla storia della Russia del tempo della caduta del regime sovietico,
ha collocato la vicenda in un tempo sospeso, congelato e pertanto
sempre attuale.
|