Teza
Haile Gerima - Etiopia/Ger/Fra 2008 - 2h 20'

Gabbla (Inland)
Tariq Teguia - Algeria/Fra 2008 - 2h 20'

Venezia 65°-Premio Speciale della Giuria

Venezia 65° - Concorso


    Da sottolineare, rilevare, apprendere, custodire, il cinema africano quest’anno alla Mostra si è imposto attraverso due derive meritevoli di guidare la riflessione in percorsi imprevedibili. Da una parte il veterano Haile Gerima, regista, sceneggiatore, produttore, professore, etiope con alle spalle molti premi e grande esperienza, dall’altra Tariq Teguia, giovane algerino, fotografo prima di tutto, e studioso di arti visive e filosofia. Due formazioni, generazioni, modi di concepire il cinema radicalmente distin(guibil/t)i, ma accomunati dalla medesima arduità di fruizione, legame insieme autodeflagrante quanto conturbante per l’intemperanza con cui obbliga lo spettatore a rispettarsi nell’incapacità di cogliere appieno quell’intensità inafferrabile e cauterizzante del cinema.
Teza di Gerima ripercorre trent’anni della storia dell’Etiopia attraverso la cronaca del ritorno dalla Germania
dell’intellettuale Anberber al suo paese d’origine durante il repressivo regime marxista di Haile Mariam Mengistu e della presa di coscienza del proprio disallineamento e della propria impotenza di fronte alla dissoluzione dei valori umani e sociali del suo popolo.
Un film di significati e contenuti - politico, sociale, culturale - di narrazione estrema, tesa, violenta e arrabbiata, di storia, di denuncia, di conoscenza e di riferimenti; intellettuale, in cui la forma di fa mero strumento per fornire un potenziale più alto, umano. E in questo senso fortemente connotato sotto il profilo ideologico, ma non solo, perché le pieghe del racconto sono cariche anche di speranze - a volte idealiste: il protagonista grazie agli studi in Europa spera di guarire le malattie altrove curabili che affliggono il suo popolo - e sogni - manifestati attraverso simboli e metafore e rituali spesso indecifrabili - e delusioni che causano annichilimento e sangue, una sofferenza interdicente, un’instabilità, un senso di inappartenenza, di sradicamento, di inappropriata territorialità psichica.
Ma la migliore strada interpretativa da intraprendere è condensata nel respiro ponderato delle parole dell’autore: “L’idea di identità e di liberazione rappresenta forse per me e per la mia visione di cinema indipendente il vero obiettivo. Raccontare la storia di qualcuno significa scrivere il nome di qualcuno sulla carta della storia e farlo onorando le battaglie dei propri antenati è fondamentale per assicurare alle generazioni future documenti che possano permettergli di elaborare una strategia di salvezza. La storia, la cultura e il benessere socio-economico di tutti i popoli di origine africana sono la mia prima preoccupazione, ma la più grande motivazione come regista è preservare la loro umanità”.

Bisogna per forza invece lasciarsi abbandonare al fascino estetico delle immagini per godere di Gabbla (Inland) di Tariq Teguia, film dallo scorrere temporale dilatato e impercettibile, dalla suggestione catartica, dalla narrazione accennata e quasi sempre inafferrabile. “Il film nasce da un unico desiderio: tracciare delle linee sul paesaggio postbellico dell’Algeria, ora che il paese esce da una guerra mossa dagli islamici contro la società. Gabbla vuole individuare vie d’uscita, percorsi di vita nuovi, che si sovrappongono ad altri più antichi e già ampiamente battuti”. Basta già questo per accorgersi quanto sia contingente ogni tentativo di comprensione lineare del soggetto e viceversa quanto quelle linee sul paesaggio rinviino ad un’incombente presenza fuori campo, quella presenza che interroga persistentemente il proprio rapporto rispetto a ciò che (si) vede. L’occhio di Teguia vuole fendere l’immagine per mezzo del suo oggetto umano, non a caso, proprio un topografo che conduce una vita quasi da recluso, e mappare l’inaccessibilità del paesaggio, vero protagonista solipsistico del film. Il paesaggio deborda ad ogni inquadratura, nonostante essa si prodighi a coglierlo e governarlo, producendo soluzioni imprevedibili e dall’intensità fuorviante.
L’impulso del desiderio estetizzante ritrae un luogo che via via perde ogni connotazione predefinita, preregistrata, classica e usuale e immerge lo sguardo in quadri senza tempo, in un continuo rimando di controcampi mai svelati, di silenzi , di gesti, di traiettorie. Esattamente come quelle calcolate dal topografo, e perdute dall’incontro con una donna, che mette in moto un viaggio verso la fuga, verso il deserto più profondo e sconosciuto, verso un punto dove potersi eclissare insieme. Il suono naturale e interno (diegetico sempre) crea una sorta di intensità pornografica della visione, creando a sua volta momenti inattesi di manipolazione musicale che travalicano il contesto e il tempo.
Cinema sperimentale, e per questo ancora più necessario di questi tempi - anche se riproducibile solo a un festival - dagli echi antonioniani. Impossibile ed estenuante per molti (alla fine della proiezione erano rimaste una decina di persone), questo cinema vive della pretesa di un totale abbandono del dominio della mente sugli occhi.

Alessandro Tognolo - MC magazine 24 ottobre 2008

promo

Teza Trent’anni della storia dell’Etiopia attraverso la cronaca del ritorno dalla Germania dell’intellettuale Anberber al suo paese d’origine durante il repressivo regime marxista e della presa di coscienza della propria impotenza di fronte alla dissoluzione dei valori umani e sociali del suo popolo. Un film di significati e contenuti - politico, sociale, culturale - di narrazione estrema, tesa, violenta e arrabbiata, un'opera che ha "rischiato" di vincere il Leone d'oro e che ora, grazie al Premio Speciale della Giuria, cerca il giusto riconoscimento anche dal grande pubblico.

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