Da
sottolineare, rilevare, apprendere, custodire, il cinema africano
quest’anno alla Mostra si è imposto attraverso due derive meritevoli
di guidare la riflessione in percorsi imprevedibili. Da una parte il
veterano Haile Gerima, regista, sceneggiatore, produttore, professore,
etiope con alle spalle molti premi e grande esperienza, dall’altra
Tariq Teguia, giovane algerino, fotografo prima di tutto, e studioso
di arti visive e filosofia. Due formazioni, generazioni, modi di
concepire il cinema radicalmente distin(guibil/t)i, ma accomunati
dalla medesima arduità di fruizione, legame insieme autodeflagrante
quanto conturbante per l’intemperanza con cui obbliga lo spettatore a
rispettarsi nell’incapacità di cogliere appieno quell’intensità
inafferrabile e cauterizzante del cinema.
Teza
di Gerima ripercorre trent’anni della storia dell’Etiopia attraverso
la cronaca del ritorno dalla Germania dell’intellettuale Anberber al
suo paese d’origine durante il repressivo regime marxista di Haile
Mariam Mengistu e della presa di coscienza del proprio disallineamento
e della propria impotenza di fronte alla dissoluzione dei valori umani
e sociali del suo popolo.
Un film di significati e contenuti - politico, sociale, culturale - di
narrazione estrema, tesa, violenta e arrabbiata, di storia, di
denuncia, di conoscenza e di riferimenti; intellettuale, in cui la
forma di fa mero strumento per fornire un potenziale più alto, umano.
E in questo senso fortemente connotato sotto il profilo ideologico, ma
non solo, perché le pieghe del racconto sono cariche anche di speranze
- a volte idealiste: il protagonista grazie agli studi in Europa spera
di guarire le malattie altrove curabili che affliggono il suo popolo -
e sogni - manifestati attraverso simboli e metafore e rituali spesso
indecifrabili - e delusioni che causano annichilimento e sangue, una
sofferenza interdicente, un’instabilità, un senso di inappartenenza,
di sradicamento, di inappropriata territorialità psichica.
Ma la migliore strada interpretativa da intraprendere è condensata nel
respiro ponderato delle parole dell’autore: “L’idea di identità e
di liberazione rappresenta forse per me e per la mia visione di cinema
indipendente il vero obiettivo. Raccontare la storia di qualcuno
significa scrivere il nome di qualcuno sulla carta della storia e
farlo onorando le battaglie dei propri antenati è fondamentale per
assicurare alle generazioni future documenti che possano permettergli
di elaborare una strategia di salvezza. La storia, la cultura e il
benessere socio-economico di tutti i popoli di origine africana sono
la mia prima preoccupazione, ma la più grande motivazione come regista
è preservare la loro umanità”.
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Bisogna
per forza invece lasciarsi abbandonare al fascino estetico delle
immagini per godere di
Gabbla
(Inland) di Tariq Teguia, film dallo scorrere temporale dilatato e
impercettibile, dalla suggestione catartica, dalla narrazione
accennata e quasi sempre inafferrabile. “Il film nasce da un unico
desiderio: tracciare delle linee sul paesaggio postbellico
dell’Algeria, ora che il paese esce da una guerra mossa dagli islamici
contro la società. Gabbla vuole individuare vie d’uscita, percorsi di
vita nuovi, che si sovrappongono ad altri più antichi e già ampiamente
battuti”. Basta già questo per accorgersi quanto sia contingente ogni
tentativo di comprensione lineare del soggetto e viceversa quanto
quelle linee sul paesaggio rinviino ad un’incombente presenza fuori
campo, quella presenza che interroga persistentemente il proprio
rapporto rispetto a ciò che (si) vede. L’occhio di Teguia vuole
fendere l’immagine per mezzo del suo oggetto umano, non a caso,
proprio un topografo che conduce una vita quasi da recluso, e mappare
l’inaccessibilità del paesaggio, vero protagonista solipsistico del
film. Il paesaggio deborda ad ogni inquadratura, nonostante essa si
prodighi a coglierlo e governarlo, producendo soluzioni imprevedibili
e dall’intensità fuorviante.
L’impulso del desiderio estetizzante ritrae un luogo che via via perde
ogni connotazione predefinita, preregistrata, classica e usuale e
immerge lo sguardo in quadri senza tempo, in un continuo rimando di
controcampi mai svelati, di silenzi , di gesti, di traiettorie.
Esattamente come quelle calcolate dal topografo, e perdute
dall’incontro con una donna, che mette in moto un viaggio verso la
fuga, verso il deserto più profondo e sconosciuto, verso un punto dove
potersi eclissare insieme. Il suono naturale e interno (diegetico
sempre) crea una sorta di intensità pornografica della visione,
creando a sua volta momenti inattesi di manipolazione musicale che
travalicano il contesto e il tempo.
Cinema sperimentale, e per questo ancora più necessario di questi
tempi - anche se riproducibile solo a un festival - dagli echi
antonioniani. Impossibile ed estenuante per molti (alla fine della
proiezione erano rimaste una decina di persone), questo cinema vive
della pretesa di un totale abbandono del dominio della mente sugli
occhi.
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